Note del corso di Fisica per MATFIN

M. Billò

a.a. 2011/2012

Indice

1 Concetti introduttivi
 1.1 Grandezze fisiche
 1.2 Misure ed errori
2 Cinematica del punto materiale
 2.1 Spazio ambiente e sistemi di coordinate
 2.2 Vettori
 2.3 La legge oraria
  2.3.1 Spostamento e distanza
  2.3.2 Velocità media
  2.3.3 Moto rettilineo uniforme
 2.4 Velocità ed accelerazione
  2.4.1 Velocità istantanea
3 Dinamica
 3.1 Concetto intuitivo e definizione operativa delle forze
 3.2 Le leggi fondamentali del moto
  3.2.1 La prima legge del moto
  3.2.2 La seconda legge del moto
  3.2.3 Un’applicazione importante: il moto armonico
  3.2.4 La terza legge del moto
 3.3 Alcuni tipi di forze macroscopiche e loro caratteristiche
  3.3.1 Forze d’attrito
  3.3.2 Forze di resistenza dipendenti dalla velocità
 3.4 Origine microscopica delle forze macroscopiche e interazioni elettriche
  3.4.1 Cariche elettriche e forze coulombiane
  3.4.2 Il campo elettrico
  3.4.3 Flusso del campo elettrico

Capitolo 1
Concetti introduttivi

Impostazione del corso Le principali motivazioni per lo studio della Fisica di base nel corso di laurea MATFIN sono a mio avviso, le seguenti:

La Fisica La Fisica si propone di dare una descrizione quantitativa di certi aspetti di base della natura e del nostro mondo, formulando leggi, matematicamente espresse ed il più possibile generali, che premettono di effettuare previsioni. Si basa sul metodo scientifico per raggiungere una conoscenza della realtà oggettiva affidabile, verificabile, condivisibile.

Nel metodo scientifico si hanno due aspetti che interagiscono fra di loro: raccolta di evidenze empiriche misurabili attraverso osservazioni ed esperimenti; formulazione di ipotesi e teorie da sottoporre nuovamente a verifica sperimentale.

Una sequenza più dettagliata del modo di procedere è la seguente.

1.1 Grandezze fisiche

Le grandezze fisiche sono i “tipi” di proprietà osservabili e misurabili. Esse sono definite operativamente tramite il confronto con una unità campione convenzionalmente definita. Tale confronto permette di assegnare un risultato quantitativo (cioè numerico) alla misura delle grandezze.

Esistono evidentemente diversi tipi indipendenti di grandezze fisiche: con un campione di lunghezza (ad es un metro a nastro), operativamente non riesco a misurare un intervallo di tempo.

Grandezze fondamentali Si definiscono grandezze fondamentali un insieme di grandezze indipendenti sufficienti per poter definire ogni altra grandezza fisica in termini di esse. Per un sistema di grandezze fondamentali si sceglie in modo convenzionale un insieme di campioni di misura; vi possono essere ovviamente diverse scelte di campioni, più o meno largamente adottate. In Fisica, ed in generale nella Scienza e nella Tecnologia, è quasi universalmente adottato il cosiddetto Sistama Internazionale (S.I.). Le grandezze fondamentali e le relative unità di misura nel S.I. sono riportate in tabella 1.1










grandezza simbolounità simbolo




lunghezza L metro m
massa M chilogrammo Kg
tempo t secondo s
temperatura assoluta T grado Kelvin K
intensità luminosa I candela cd
intensità di corrente i Ampere A









Tabella 1.1: Le grandezze fondamentali coi loro simboli, le unità di misura corrispondenti e i simboli di quest’ultime nel S.I.

Possiamo eventualmente considerare, in ambiti che esulano dalla Fisica strettamente detta, anche altre grandezze (definite, magari, in modo meno rigoroso). Ad esempio, il valore monetario, che nel sistema europeo si misura in euro () e nel sistema americano in dollari ($). Sicuramente è una grandezza di tipo diverso dalla massa o dal tempo3. Potremmo ad esempio indicare tale grandezza come D (per “denaro”).

Grandezze derivate Le grandezze derivate sono operativamente definite in termini di grandezze fondamentali. Ad esempio una misura di velocità (media) si ottiene dividendo la misura dello spazio percorso per quella del tempo di percorrenza: velocità = lunghezzatempo. Similmente, l’accelerazione corrisponde a lunghezza(tempo)2.

Dimensionalità delle grandezze Il ”tipo” di una grandezza in riferimento alle grandezze fondamentali è noto come dimensione, e viene indicato usando parentesi quadre. Il concetto è facilmente espresso tramite esempi, come nella tabella 1.2.








grandezza derivata dimensione unità di misura



velocità [v] = [Lt-1]ms
accelerazione [a] = [Lt-2]ms2
superficie [S] = [L2]m2
volume [V ] = [L3]m3
densità volumica [ρ] = [ML-3]Kgm3







Tabella 1.2: Alcune grandezze derivate.

Si può estendere questo concetto anche ad altri campi. Ad esempio, quali sono le “dimensioni” di un incremento annuale di capitale δC? Tale quantità corrisponde all’aumento totale di capitale (che è un valore monetario, cioè una grandezza fondamentale di tipo D, secondo quanto ipotizzato prima) diviso per il periodo di tempo in cui si è verificato (misurato in anni). Abbiamo dunque

δC = Dt-1 . (1.1)

Quali sono invece, le dimensioni di un tasso annuo di interesse α? Il tasso di interesse corrisponde all’incremento annuo di capitale diviso per il capitale iniziale, quindi

α = δCC = t-1 . (1.2)

Infatti si esprime usualmente come una percentuale (che è un numero puro) “all’anno” (o al mese, etc. …).

Analisi dimensionale E’ un potente strumento di controllo sulla validità delle relazioni che si suppone esistano fra certe grandezze (e delle soluzioni degli esercizi!!) che consiste nel controllare che le dimensioni di termini che vengono uguagliati o sommati siano le stesse, cioè che i termini siano omogenei.

Supponiamo ad esempio di trovare una formula che lega lo spazio percorso s all’accelerazione a ed al tempo impegato t nel seguente modo:

s = 1 2at2. (1.3)

Possiamo controllare che questa formula è dimensionalmente corretta: per il membro di sinistra, che è una lunghezza, si ha

[s] = [L]. (1.4)

Per il membro di destra,

1 2at2 = at2 = Lt-2t2 = L. (1.5)

Nel secondo passaggio teniamo conto che il fattore 12 è adimensionale, quindi è irrilevante in questa analisi dimensionale4; nel secondo inseriamo le dimensioni dell’accelerazione, riportate nella tabella 1.2; nel passaggio finale manipoliamo le dimensioni come grandezze algebriche.

Una formula del tipo s = at non sarebbe invece dimensionalmente corretta. Come altro esempio, la 2a equazione della dinamica (equazione di Newton), che dicuteremo più avanti, collega la forza F agente su un punto materiale (modello ideale di certi sistemi fisici) alla massa m ed accelerazione a di tale punto:

F = ma. (1.6)

Assumendo che tale equazione sia corretta, segue che le dimensioni di una forza sono

[F] = [ma] = [MLt-2]. (1.7)

L’unità di misura derivata per la forza nel S.I. è dunque il Kgms-2. L’importanza di tale unità di misura fa sì che le sia riservato un nome e un simbolo apposito, il Newton (N).

Costanti dimensionali In certi sistemi fisici compaiono dei parametri caratterizzanti (delle “costanti” del sistema) che possono essere dimensionali. Ad esempio, si trova sperimentalmente che le molle esercitano una forza di richiamo proporzionale all’elongazione cui sono soggette.


PIC


Figura 1.1: Una molla elongata esercita una forma di richiamo.

Con riferimento alle notazioni della figura 1.1, si ha dunque

F = kx. (1.8)

Dimensionalmente si deve avere (x è una lunghezza)

[F] = [kx] = [k][x] = [k][L]. (1.9)

Le dimensioni di una forza sono date dall’eq. (1.7), quindi

[MLt-2] = [k][L] (1.10)

da cui, operando algebricamente sulle dimensioni, possiamo ricavare [k]:

[k] = [Mt-2]. (1.11)

Dunque k è una costante dimensionale che caratterizza la molla (e varia da molla a molla).

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Esercizio Calcolate le dimensioni della “costante di gravitazione universale” G che compare nella formula che descrive la forza di attrazione tra due punti materiali di masse m1 e m2 posti a distanza r:

F = Gm1m2 r2 . (1.12)

Grandezze adimensionali Sono grandezze derivate ottenute come rapporto di grandezze omogenee, e sono rappresentate da numeri puri. La presenza di grandezze adimensionali e coefficienti numerici in un’equazione non può essere controllata tramite l’analisi dimensionale.

E’ importante notare che solo grandezze adimensionali possono entrare in una formula come argomenti di una funzione che non sia semplicemente un monomio nelle varie grandezze da cui dipende.

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Esempio Se τ è un tempo e x una posizione, una legge di moto del tipo

x(τ) = eτ (1.13)

non è possibile. Il membro di destra non ha una dimensione definita, e pertanto non ha senso. Infatti, se espandiamo5 in serie di Taylor l’esponenziale per τ piccoli, abbiamo

eτ = 1 + τ + 1 2τ2 + . (1.16)

I termine di questa espansione non sono omogenei: il primo è adimensionale, il secondo ha dimensione [t], il terzo [t2], …. Una possible legge, dimensionalmente consistente, sarebbe invece la seguente:

x(τ) = x0eττ0 , (1.17)

dove x0 ha le dimensioni di una lunghezza e corrisponde alla posizione al tempo τ = 0 mentre τ0 è una scala temporale di riferimento. In tal caso, l’argomento dell’esponenziale (e quindi l’esponenziale tutto) è adimensionale.

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Angoli Un esempio molto importante di grandezze adimensionali è rappresentato dagli angoli.


PIC


Figura 1.2: La definizione dell’angolo

L’angolo θ tra due direzioni è definito scegliendo una circonferenza di raggio r qualsiasi, centrata nel punto di intersezione delle due direzioni, come il rapporto tra la lunghezza dell’arco di corconferenza s compreso tra le due direzioni e il raggio stesso, vedi figura 1.2:

θ = s r. (1.18)

Dato che s è proporzionale ad r, questa definizione è indipendente dal raggio scelto. Quando gli angoli sono definiti tramite questa formula, essi sono numeri puri, ma si dice comunemente che sono “misurati in radianti”. E’ immediato trovare il valore di alcuni angoli particolari. Ad esempio, per un angolo giro, l’arco di circonferenza corrisponde a tutta la circonferenza, quindi

angologiro :θ = 2πr r = 2π. (1.19)

Un’angolo piatto è metà di un angolo giro, quindi corrisponde a π. Un angolo retto, che è metà di un angolo piatto, vale π2. L’angolo al vertice di un triangolo equilatero, che è un terzo di angolo giro, vale π3.

Per gli angoli si usa spesso nella vita comune la notazione sessagesimale, in cui un angolo piatto corrisponde a 180. Da questo possiamo dedurre la corrispondenza tra gradi sessagesimali e radianti:

180 = π 1 = π 180. (1.20)

Questo fattore di conversione ci permette di riesprimere angoli dati in gradi sessagesimali in radianti (cioè come numeri puri). Ad esempio, un angolo di 108 corrisponde a

108 = 108 × π 180 = 3π 5 . (1.21)

Esempio di uso dell’analisi dimensionale Consideriamo un semplice sistema fisico, detto pendolo ideale, che rappresenta la modellizzazione più semplice di un pendolo reale; vedi figura 1.3.


PIC


Figura 1.3: Modellizzazione di un pendolo ideale.

In tale modello, qui sulla terra, un punto materiale di massa m è sospeso senza attriti ad un punto tramite un file rigido di lunghezza l, inestensibile e di massa trascurabile. Il pendolo viene allontanato dalla posizione di equilibrio (la verticale) e lasciato libero di muoversi sotto l’influsso della gravità superficiale terrestre, che come è noto è caratterizzata dall’accellerazione di gravità g = 9.8ms-2. Si verifica che il pendolo oscilla in maniera regolare con un periodo di oscillazione T (il periodo è il tempo necessario al pendolo per compiere un’oscillazione completa, avanti e indietro). Il periodo T può dipendere solo dal volore di m e di l e da g, che sono le uniche grandezza che entrano nel nostro modello. Assumiamo una dipendenza del tipo

T = clαmβgγ, (1.22)

dove c è una costante numerica, ed α,β,γ dei coefficienti che vorremmo determinare. L’analisi dimensionale di questa relazione ci fornisce la seguente relazione:

[T] = [lαmβgγ] = [LαMβLγt-2γ], (1.23)

dove nel secondo passaggio abbiamo ricordato che l è una lunghezza, m è una massa e g un’accelerazione. Nel membro da sinistra, T è un tempo, quindi otteniamo

[t] = [Lα+γMβt-2γ]. (1.24)

Nei due membri, tutte le grandezze fondamentali devono apparire alla stessa potenza; otteniamo pertanto il sistema di equazioni

α + γ = 0, (1.25) β = 0, (1.26) -2γ = 1 (1.27)

che ha la soluzione α = 12, β = 0, γ = -12. Otteniamo pertanto che la formula che esprime il periodo di oscillazione è

T = c l g. (1.28)

Il coefficiente adimensionale c non può venir fissato tramite analisi dimensionale; quando studieremo questo modello otterremo che c = 2π.

Cambiamenti di unità di misura Per effettuare la conversione tra la misura di due grandezze effettuata rispetto ad unità di misura diverse è sufficiente (e sempre possibile: si tratta di grandezze omogenee!) esprimere la “vecchia” unità di misura in termini della “nuova”.

Ad esempio, nei paesi anglosassoni spesso si usa come misura di lunghezza l’inch (il “pollice”). Si ha che

1inch = 2.54cm = 2.54 × 10-2m. (1.29)

Supponiamo di conoscere la misura di un area A in pollici quadri: A = 4(inch)2. Nel S.I. si avrà

A = 4(inch)2 = 4(2.54 × 10-2m)2 = 4 × (2.54)2 × 10-4m2 = 2.58 × 10-3m2. (1.30)

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Esempio Consideriamo un esempio al di fuori della fisica strettamente detta. Definiamo un (peculiare) indicatore economico I dato dal rapporto tra il prodotto interno lordo (P.I.L.) P e la superficie S di una nazione:

I P S, (1.31)

che (vagamente) rappresenta lo sfruttamento economico del territorio. Vogliamo confrontare tale indice tra U.S.A. e Eurozona, sapendo che i dati rilevanti (riferiti al 2014) sono espressi nella seguente tabella:







U.S.A. Eurozona



P17.4 × 1012 $ 13.4 × 1012
S 3717813 sq. ml 2628410 km2






In tale tabella, sq. ml sta per “miglia quadre”. L’indicatore I per gli Stati Uniti vale

IUSA = 17.4 × 1012$ 3.717 × 106miglia2 = 4.69 × 106$miglia2. (1.32)

Per la zona Euro abbiamo invece

IEuro = 13.4 × 1012 2.628 × 106Km2 = 5.09 × 106Km2. (1.33)

Non possiamo confrontare direttamente i valori numerici dei due indici perché sono espressi in unità differenti. Le regole di conversione dalle unità U.S.A. a quelle europee sono i seguenti (il tasso di scambio è quello medio del 2014):

1 miglio = 1609m,1$ = 0.746(cambio di fine 2012). (1.34)

Possiamo quindi riesprimere IUSA come segue:

IUSA = 4.69 × 106 × 0.746 (1.609Km)2 = 1.35 × 106Km2. (1.35)

Confrontando tale valore con quello di IEuro dato in eq. (1.33) vediamo che questo particolare indice è molto più alto per l’Eurozona (si ha IEuro = 3.76IUSA). Ciò è assai ragionevole, dato che vaste zone degli USA sono poco popolate e poco produttive in quanto desertiche o semi-desertiche.

1.2 Misure ed errori

Nell’effettuare la misura di una grandezza fisica si ricercano la precisione e l’accuratezza.

Precisione La precisione di una misura dipende da quanto essa è ben determinata, indipendentemente da quanto essa si avvicini al valore “vero” della grandezza oggetto di misura. E’ legata in particolare alla scala minima che possiamo leggere sui nostri strumenti di misura.

Accuratezza L’accuratezza di una misura dipende da quanto essa si avvicina al valore vero della grandezza.

Stima dell’errore su una singola misura Effettuando una misura bisogna ovviamente cercare di evitare gli errori veri e proprii (errori di lettura, di posizionamento degli apparecchi, etc.), detti errori sistematici, per avere una buona accuratezza, ed utilizzare uno strumento con una risoluzione adeguata alla grandezza da misurare e agli scopi della misura stessa. Ad esempio, misurare un segmento l delle dimensioni di quello tracciato qui:

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con un metro a nastro che segna solo i centimetri è poco sensato, perchè troppo impreciso. E’ adeguato invece un righello riportante i millimetri.

Per una misura singola di una grandezza f, il cui risultato sia un certo valore fm, si deve stimare l’errore massimo assoluto Δf che si è potuto commettere. Il risultato della misura va quindi riportato come

f = fm ± Δf. (1.36)

Nell’esempio precedente, il possibile errore massimo Δl nella misura del segmento l dovuto alla limitata precisione della scala è 0.5mm. Tenendo conto che potremmo aver fatto qualche errore nel posizionamento del righello, e per tenerci sul sicuro, potremmo aumentare questo valore e pensare che l’errore massimo assoluto sia Δl = 1mm. Se per esempio otteniamo la misura lm = 4.7cm , quello che possiamo dire con sicurezza è

l = (4.7 ± 0.1)cm. (1.37)

Errore relativo Più significativo dell’errore assoluto Δf è l’errore relativo, definito come il rapporto tra l’errore e il valore della grandezza misurata6:

Δf |fm|. (1.38)

L’errore relativo è un numero puro, e viene espresso in percentuale. Nell’esempio precedente, abbiamo

Δl |lm| = 0.1cm 4.7cm = 0.02 = 2%. (1.39)

Se l’errore di un millimetro dell’esempio precedente fosse stato per la misura di una lunghezza dell’ordine di chilometri, l’errore relativo sarebbe risultato bassissimo: avremmo fatto un lavoro eccezionale!

Cifre significative La presenza di un termine di errore nella misura ci dice che essa puó essere conosciuta con sicurezza solo fino ad un certo livello, cioè che il suo valore numerico ha solo un certo numero di cifre significative. L’ultima cifra significativa è quella che corrisponde all’ordine di grandezza dell’errore.

Nell’esempio appena utilizzato, è corretto scrivere

l = 4.7cm(corretto) (1.40)

con due cifre significative: infatti in questo modo si comunica che l’ultima cifra significativa è quelle che corrisponde ai mm, e quindi che l’ordine di grandezza dell’errore è di 1mm, che è in effeti l’errore massimo assoluto stimato. Il numero di cifre significative di una misura è collegato all’errore relativo su di essa. Se si hanno n cifre significative, questo indica che l’errore relativo è dell’ordine di grandezza di 10-n. Nell’esempio precedente, l’errore relativo è 2 × 10-2, cioè è dell’ordine di 10-2, e la misura ha dunque due cifre significative.

Se scrivessimo

l = 4.70cm(scorretto) (1.41)

con tre cifre significative, questo comunicherebbe un ordine di grandezza dell’errore corrispondente a quello dell’ultima cifra significativa, cioè 0.01cm = 0.1mm, il che non corrisponde al vero.

Notiamo inoltre che avremmo potuto correttamente scrivere la nostra misura come

l = 0.047m(corretto). (1.42)

Le cifre significative di tale scrittura rimarrebbero due: gli zeri iniziali non contano perché ci troviamo a doverli inserire semplicemente a causa dell’unità di misura scelta, grande rispetto al risultato.

Se invece volessimo esprimere il risultato in termini di un’unità di misura piccola, quale il micron μ = 10-6m, ci troveremmo di fronte ad una ambiguità. Infatti, effettuando l’equivalenza a partire da l = 0.047m troveremmo apparentemente

l = 47000μ(scorretto). (1.43)

Tale scrittura, però, avrebbe cinque cifre significative, e sembrerebbe implicare che noi conosciamo il risultato con un incertezza dell’ordine del valore dell’ultima cifra, cioè del micron. Infatti, se noi avessimo davvero effetuato la misura tramite qualche sofisticato strumento di misura in modo da avere davvero un errore massimo stimato di 1μ, la scriveremmo esattamente nello stesso modo. Per risolvere l’ambiguità, il modo corretto di scrivere la nostra misura è tramite la notazione esponenziale:

l = 4.7 × 104μ(corretto). (1.44)

Le cifre significative in tal modo rimangono due, e si evidenzia che l’errore è dell’ordine dei 104μ, cioè del mm.

Propagazione dell’errore Supponiamo di voler valutare una grandezza tramite la sua espressione in funzione di altre grandezze delle quali si effettua una misura diretta. Come semplice esempio, consideriamo la misura dell’area A di una piastra rettangolare, vedi figura 1.4.


PIC


Figura 1.4: La grandezza da misurare è l’area A di una piastra rettangolare.

Supponiamo di ottenerre, dalla misura diretta dei suoi lati,

l = (4.5 ± 0.1)cm,h = (16.3 ± 0.1)cm. (1.45)

Per l’area abbiamo

A = lh = (4.5 ± 0.1) × (16.3 ± 0.1)cm2. (1.46)

A causa dei possibili errori sui lati, possiamo solo dire che il valore dell’area sarà presumibilmente compreso tra il valore minimo

4.4 × 16.2cm2 = 71.28cm2 (1.47)

ed il valore massimo

4.6 × 16.4cm2 = 75.44cm2. (1.48)

Il valore centrale è (75.44 + 71.28)2cm2 = 73.36cm2; la semi-distanza tra i valori estremi è 2.08cm2. Possiamo quindi concludere che

A = (73.36 ± 2.08)cm2. (1.49)

Notiamo che l’errore è dell’ordine del centimetro, e le cifre significative del risultato sono dunque solo due, tante quante quelle del fattore con meno cifre significative, l. In conclusione, dunque, il nostro risultato va scritto come

A = (73 ± 2)cm2. (1.50)

In generale, consideriamo una grandezza

f(x1,x2,,xN) (1.51)

che dipende dalle variabili xi, i = 1,N. La misura diretta di queste ultime fornisce i risultati7 xi ± Δxi. Supponendo gli errori Δxi piccoli rispetto ai valori xi e sviluppando al prim’ordine si ha per l’errore su f la seguente espressione:

Δf = Σi f xi Δxi. (1.52)

Alcune osservazioni su questa formula:

L’errore dunque si propaga dalle misure dirette alla quantità calcolate a partire da esse. Bisonga tenere ben presente questo effetto, che può portare ad incertezze grandi sul risultato finale anche a partire da misure relativamente precise.

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Esempio Sulla Terra, un oggetto libero di cadere ha un’accelerazione costante diretta verso il basso (accelerazione di gravità) g = (9.80 ± 0.01)ms-2. Se denotiamo con z la coordinata verticale, la posizione di un oggetto in caduta libera in funzione del tempo può venire espressa, come vedremo in seguito, tramite la formula

z(t) = z0 + v0t - 12gt2. (1.53)

Qui z0 rappresenta la posizione dell’oggetto, e v0 la sua velocità all’istante t = 0 (potrebbe essere lanciato o spinto invece che semplicemente lasciato andare). Supponiamo di voler conoscere (senza averla potuta misurare direttamente) l’altezza dell’oggetto zT ad un tempo T = (2.0 ± 0.1)s determinato sperimentalmente, sapendo che la posizione iniziale è stata misurata essere y0 = (100.0 ± 0.1)m, con velocità approssimativamente nulla: v0 = (0.0 ± 0.1)ms-1. Utilizzando la legge del moto (1.53) abbiamo

zT = z0 + v0T - 12gT2. (1.54)

Coi valori riportati prima, si ottiene zT = 19.6m.


PIC


Figura 1.5: L’incertezza sui dati iniziali, e quindi sulla furma della curva z(t), e quella sul tempo T portano ad un incertezza sul risultato finale zT .

Si hanno però errori su z0,v0,g e T, che si propagano secondo la formula eq. (1.52) alla grandezza zT :

ΔzT = zT z0 Δz0 + zT v0 Δv0 + zT g Δg + zT T ΔT = Δz0 + TΔv0 + 1 2T2Δg + |v 0 - gT|ΔT. (1.55)

Siccome stiamo lavorando al prim’ordine negli errori, possiamo ora in questa espressione inserire per y0,v0, i valori misurati, senza errori. Otteniamo infine nel nostro caso, sostituendo i valori numerici dati prima per le misure e i loro errori, ΔzT = 2.2m. La nostra stima per la grandezza zT è dunque affetta da un incertezza piuttosto grande, ed ha due sole cifre significative:

zT = (19 ± 2)m. (1.56)

La figura 1.5 da’ una descrizione grafica di tale incertezza.

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La propagazione delle incertezze andrebbe tenuta in debito conto anche in ambiti diversi dalla Fisica.

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Esempio Supponiamo di sapere che un capitale investito avrà nel tempo un andamento esponenziale secondo la legge

C(t) = C0eαt, (1.57)

dove C0 è il capitale iniziale, e α il tasso di interesse. Pensiamo di poter mettere insieme un capitale iniziale di un milione di euro, give or take diecimila euro: C0 = (106 ± 104) . Ipotizziamo inoltre di riuscire a spuntare un tasso di interesse (fisso) tra il 2 e il 4% all’anno: α = (0.03 ± 0.01) (anno)-1. Quale capitale C10 potremo avere tra 10 anni? Dall’eq. (1.57) risulta

C10 = C0 ×eαt t=10anni = 106 ×e0.03×10 = 1.3 × 106. (1.58)

PIC


Figura 1.6: L’incertezza sul capitale iniziale e sul tasso di interesse determina un’incertezza sulla forma della funzione C(t) e quindi sul capitale atteso a 10 anni.

Tuttavia, le incertezze su C0 ed α si propagano a C10:

ΔC10 = C10 C0 ΔC0 + C10 α Δα = eαt t=10anniΔC0 + C0 teαt t=10anniΔα = 1.4 × 105. (1.59)

Possiamo dunque stimare il nostro capitale a 10 anni come

C10 = (1.30 ± 0.14) × 106. (1.60)

Il nostro guadagno nell’operazione, C10 - C0, sarà di (300000 ± 140000) . L’incertezza è forte. La figura 1.6 da’ una descrizione grafica di tale incertezza.

Propagazione dell’errore relativo in casi particolari Consideriamo una grandezza f ottenuta come prodotto di due altre:

f(x,y) = xy. (1.61)

La formula di propagazione degli errori, eq. (1.52), applicata a questo caso ci dice che

Δf = f xΔx + f yΔy = |y|Δx + |x|Δy. (1.62)

Per l’errore relativo si ha allora

Δf |f| = Δx |x| + Δy |y|. (1.63)

Per un prodotto, gli errori relativi si sommano!

La stessa cosa succede per un rapporto. Infatti, se g = xy, si ha

Δg = g xΔx + g yΔy = 1 |y|Δx + |x| |y|Δy (1.64)

e quindi nuovamente

Δg |g| = Δx |x| + Δy |y|. (1.65)

Possiamo generalizzare questa proprietà considerando il caso, abbastanza comune, di una grandezza espressa come un monomio in molte variabili:

f(x1,x2,,xN) = c(x1)k1 (x2)k2 (xN)kN , (1.66)

dove c è una costante. Le derivate parziali di f sono facilmente esprimibili: ad esempio,

f x1 = ck1(x1)k1-1(x 2)k2 (xN)kN = k1 x1f. (1.67)

Similmente avviene per le altre variabili, quindi possiamo scrivere, per ogni i = 1,N,

f xi = ki xif (1.68)

ed ottenere, applicando l’eq. (1.52) per la propagazione degli errori,

Δf = Σi=1N f xi Δxi = Σi=1N|ki| |xi|fΔxi. (1.69)

Per l’errore relativo si ha dunque la semplice espressione

Δf |f| = Σi=1N|k i|Δxi |xi|. (1.70)

Cifre significative per particolari grandezze derivate Dalla relazione tra il numero di cifre significative e l’ordine di grandezza dell’errore relativo, descritta dopo l’eq. (1.40), segue che le formule del paragrafo precedente si possono esprimere in termini del numero di cifre significative, e danno origine alla seguente regola approssimata. Per una grandezza ottenuta tramite un prodotto, od un rapporto, il numero di cifre significative è quello del fattore che ne ha di meno.

Misure ripetute - Istogramma delle frequenze Finora abbiamo analizzato misure singole e abbiamo considerato

Tali due fattori portano a stimare un errore massimo assoluto per ogni misura.

Anche svolgendo al meglio gli esperimenti e le misure, tuttavia, ci sono sempre delle fluttuazioni e delle incertezze non eliminabili, dette errori casuali o incertezze statistiche; esse fanno si che, effettuando molte misure della stessa grandezza nelle stesse condizioni sperimentali, esse differiscono tra di loro e dal valore vero che si suppone esistere. Tali differenze sono visibili se la precisione della misura è comparabile con l’ordine di grandezza delle incertezze statistiche stesse, cioè in qualche modo se la precisione della misura è spinta al limite.

Effettuando un insieme di misure {xi}, con i = 1,N , esse possono essere rappresentate in un istogramma di frequenza come in figura 1.8.


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Figura 1.7: Istogramma delle frequenze per un set di misure della variabile x. La media è indicata come x̄.

L’asse delle ascisse rappresenta la grandezza x (in una certa unità di misura) ed è suddiviso in intervallini corrispondenti alla precisione della misura (ad esempio, intervalli di ampiezza 1mm se stiamo effetuando misure di lunghezza con un righello la cui scala riporta i millimetri). Possiamo etichettarli con un indice α. I valori misurati xi risultano distribuiti nei vari intervallini e sull’asse delle ordinate si riporta il numero di misure che cadono in ognuno di essi, divisa per il numero totale di misure, cioè la frequenza fα con cui le misure cadono in esso. L’istogramma delle frequenza mostra che le misure si addensano in una zona all’interno della quale ci aspettiamo si trovi il valore “vero”.

Media Quale è la migliore stima del valore vero che possiamo estrarre dal nostro insieme di misure? Da molti punti di vista si può mostrare che la stima più affidabile è data dalla media delle misure

x̄ = Σi=1Nx i N . (1.71)

In termini dell’istogramma delle frequenze, se denotiamo con x^α i valori centrali di ogni intervallino, la media può essere anche stimata tramite la formula

Σαx^αfα. (1.72)

Varianza empirica L’istogramma delle frequenze mostra che le misure hanno una certa dispersione intorno alla media, cioè possono essere più o meno addensate intorno ad essa. Come ottenere una descrizione quantitativa di tale dispersione?

Definiamo gli scarti ξi di ogni singola misura rispetto alla media:

ξi = xi -x̄. (1.73)

Il segno di uno scarto non è molto significativo, quello che conta è il suo modulo |ξ| che rappresenta la distanza della misura xi dalla media x̄. Spesso si considera il quadrato di tale distanza, cioè lo scarto quadratico ξi2. La grandezza quantitativa che meglio rappresenta la dispersione delle misure intorno alla media è la “varianza empirica”

s = Σi=1 N ξi 2 N - 1 . (1.74)

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Figura 1.8: Nel limite di un grande numero di misure l’istogramma delle frequenze tende ad una curva continua, la curva normale degli errori di Gauss.

La curva normale degli errori Nella maggior parte delle situazioni, se si fa un numero elevatissimo di misure (in modo idealizzato, quindi, se si prende il limite N ) e si rendono gli intervallini nell’asse delle ascisse sempre più piccoli, si puó mostrare che le frequenze ottenute assumono la forma di una funzione continua pg(x), detta distribuzione normale degli errori, o curva di Gauss, che è descritta dell’equazione

pg(x) = 1 2πσe-(x-μ)2 2σ2 . (1.75)

La curva pg(x) è la densità di probabilità di ottenere come risultato di una misura il valore x. Ciò significa che probabilità P([a,b]) di otenere un risultato x [a,b] è data da8

P([a,b]) =abdxp(x), (1.77)

come illustrato in figura 1.9.


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Figura 1.9: La propabilità totale di ottenere una misura nell’intervallo [a,b] è data dall’integrale della densità di probabilità, cioè dal’area sottesa alla curva in tale intervallo.

Data una distribuzione di probabilità p(x) possiamo calcolare il valore medio della variabile x come

x =-dxxp(x). (1.78)

Questa definizione è analoga alla definizione di media nel caso di un numero finito di misure data in eq. (1.72). Per la distribuzione gaussiana si trova

x =dxxpg(x) = μ; (1.79)

il parametro μ rappresenta dunque il valor medio della grandezza x.

______________________

Esercizio Mostrate come questo risultato segue, come quelli per i valori medii seguenti, tramite opportuni cambi di variabile, dalla seguente formula che descrive una importantissima classe di integrali definiti:

-dyyke-ay2 = 0 se k = 2n + 1, (2n-1)!! 2n πa-(2n+1)2se k = 2n, (1.80)

dove (2n - 1)!! (2n - 1)(2n - 3)(2n - 5)1.

______________________

Se consideriamo il valor medio dello scarto quadratico rispetto alla media troviamo

(x - μ)2 = x2- 2μx + μ2 = x2-x2, (1.81)

dove nel secondo passaggio abbiamo usato l’eq. (1.79) e il fatto che la distribuzione è normalizzata. Effettuando il calcolo del valor medio di x2 usando eq. (1.80) si trova infine

(x - μ)2 = σ2. (1.82)

Il parametro σ in eq. (1.75) rappresenta dunque il limite continuo della varianza empirica s definita in eq. (1.74) ed è detto varianza; esso fornisce una misura della “larghezza” della distribuzione. Ricapitolando, la relazione tra i parametri “empirici” di un set di N misure e i parametri della curva normale che descrive ciò che accadrebbe per infinite misure è l seguente:

x̄N μ,sN σ. (1.83)

Errore sulla media Avendo effettuato un set di molte misure, possiamo stimare il valore vero tramite la media empirica x̄. Quale incertezza si deve attribuire a questa stima? Questa domanda si puó rifrasare come segue: se facessimo molte serie di N misure, calcolando di ciascuna la media empirica, come si distribuirebbero tali medie? Si può mostrare che esse tenderebbero a seguire nuovamente una distribuzione di tipo gaussiano, con una varianza data da

σx̄ = σ N, (1.84)

se σ è la varianza della distribuzione corrispondente a una singola serie di misure (nel limite di N grande). In pratica, dunque, possiamo stimare empiricamente la varianza della media σx̄ tramite la quantità

δ = s N = Σi=1 N ξi 2 N(N - 1) (1.85)

e scrivere il risultato di una serie di misure come

x̄ ± δ. (1.86)

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Esercizio Suponiamo di aver misurato il periodo di oscillazione T di un pendolo, ottenendo la seguente lista di misure:

1.1s,1.3s,1.2s,1.4s,1.2s,1.3s,1.2s,1.1s,1.3s,1.2s. (1.87)

Qual’è la miglior stima che possiamo dare del periodo T e della sua incertezza?

Capitolo 2
Cinematica del punto materiale

In Fisica ci si occupa molto spesso del moto di modelli semplificati di oggetti, quali i punti materiali, nello spazio ambiente. In particolare, la cinematica si occupa della descrizione del moto, usando i concetti di spazio e di tempo, indipendentemente dalle cause del moto stesso, che sono invece oggetto di studio della dinamica.

2.1 Spazio ambiente e sistemi di coordinate

Lo spazio ambiente viene usualmente assunto essere lo spazio 3-dimensionale della nostra esperienza quotidiana.


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Figura 2.1: Assegnazione di coordinate cartesiane ad un punto P nello spazio. Il punto O è l’origine.

Coordinate cartesiane Fissando a piacere un’origine ed un sistema di assi cartesiani, vedi fig. 2.1, ad ogni punto P dello spazio viene associata una terna di numeri, le coordinate cartesiane del punto:

P(x,y,z) 3, (2.1)

dove 3 è il prodotto cartesiano × × . Ovviamente, nel determinare le coordinate cartesiane nello spazio fisico, si fissa un’unità di lunghezza rispetto alla quale le proiezioni sui vari assi sono misurate. Possiamo vedere ogni coordinata come un numero puro che esprime il rapporto tra la proiezione e l’unità di misura. L’unità scelta va comunque sempre dichiarata ed usata per estrarre l’espressione “fisica”, dimensionale, della posizione.

Può capitare di avere a che fare con situazioni semplificate o ridotte in cui i punti (gli oggetti) si possono muovere solo su un sottospazio bi-dimensionale, ed in particolare su un piano. In questo caso, con una scelta di coordinate cartesiane, il piano viene dentificato con 2, vedi fig. 2.2.


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Figura 2.2: Assegnazione di coordinate cartesiane ad un punto Q nel piano. Il punto O è l’origine.

Considereremo anche, per semplicità di trattamento ma non solo, casi la cui modellizzazione corrisponde a punti che si muovono in una dimensione sola, lungo una retta; vedi figura 2.3.


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Figura 2.3: Assegnazione di una coordinate cartesiana ad un punto R su di una retta. Il punto O è l’origine.

Ad esempio, questo modello è adeguato per descrivere il moto di una macchina lungo un rettilineo se per i nostri scopi conta solo lo spostamento lungo la strada, e trascuriamo piccole deviazioni a destra e sinistra all’interno della carreggiata.

Scelta delle coordinate Naturalmente, si possono usare sistemi di coordinate diverse per descrivere lo spazio: è un nostro privilegio usare quello che ci è più conveniente.

Ad esempio, sempre utilizando coordinate cartesiane, possiamo scegliere l’origine in un posizione diversa ed orientare gli assi diversamente. Vedi, nel caso bi-dimensionale, fig. 2.4.


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Figura 2.4: Due sistemi cartesiani nel piano, traslati e ruotati l’uno rispetto all’altro.

Consideriamo due S.R. traslati l’uno rispetto all’altro come in fig. ??. Le coordinate (x,y) di un qualsiasi punto P nel S.R. O sono date in termini delle coordinate (x,y) nel S.R. O dalle seguenti formule di passaggio:

x= x - x 0, y= y - y 0, (2.2)

dove (x0,y0) sono le coordinate dell’origine del S.R O nel S.R. O. Queste formule di passaggio si generalizzano immediatamente ad un caso tri-dimensionale (o n-dimensionale).

Per due S.R. ruotati l’uno rispetto all’altro di un angolo α come in fig. ?? le formule di passaggio (con riferimento alle notazioni della figura) sono

x= cos αx + sin αy, y= - sin αx + cos αy. (2.3)

Mostratelo per esercizio. In tre dimensioni, la rotazione reciproca di due S.R. può essere parametrizzata da due angoli, e le formule di passaggio sono un po’ più complicate, ma possono essere ricavate con ragionamenti geometrici analoghi.

Le formule di passaggio per un S.R. roto-traslato rispetto ad un altro, come in fig. 2.4 si ottengono componendo le trasformazioni date in (2.2) e (2.3):

x= cos α(x - x 0) + sin α(y - y0), y= - sin α(x - x 0) + cos α(y - y0). (2.4)

Coordinate polari nel piano In due dimensioni, un sistema di coordinate spesso molto utile è quello polare, vedi fig. 2.5.


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Figura 2.5: Coordinate polari nel piano.

Le formule di passaggio dalle coordinate polari (r,φ), con r + e φ [0, 2π], a quelle cartesiane (x,y), con l’origine nella stessa posizione, sono:

x = r cos φ,y = r sin φ. (2.5)

Le formule inverse sono (ricavatele per esercizio):

φ = arctan yx,r = x2 + y2. (2.6)

Coordinate polari nello spazio tri-dimensionale Analogamente, nello spazio tridimensionale è spesso utile il sistema delle coordinate polari sferiche (r,θ,φ), con r +, θ [0,π] e φ [0, 2π]. descritto in figura 2.6.


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Figura 2.6: Coordinate polari nello spazio.

Le formule di passaggio sono

x = r sin θ cos φ,y = r sin θ sin φ,z = r cos θ. (2.7)

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Esercizio Ricavate le formule per il passagio inverso di coordinate.

Altri sistemi In determinate situazioni, possono rivelarsi utili altri sistemi di coordinate, ad esempio un sistema “cilindrico” di coordinate nello spazio, descritto in figura 2.7.


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Figura 2.7: Coordinate cilindriche nello spazio.

La scelta di un sistema di coordinate opportuno può semplificare, e di molto, il trattamento di un problema, ma in linea di principio nulla di fisico dipende da tale scelta1.

2.2 Vettori

Studiando il moto di un punto materiale, ci interesserà lo spostamento di tale punto durante un certo intervallo di tempo. Lo spostamento è il segmento orientato PiPf¯ che ne congiunge la posizione iniziale Pi e la posizione finale Pf, vedi figura 2.8, ed è un esempio di vettore.


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Figura 2.8: Il vettore spostamento Δx è il segmento orientato tra un punto iniziale Pi ed un unto finale Pf.

I vettori nello spazio tri-dimensionale 3 (ma anche, ovviamente, nel piano 2 o su di una retta) sono rappresentati come frecce, ed indicati usualmente con lettere coronate da una freccia: ad esempio, uno spostamento potrebbe esere indicato come Δx, una forza come F, ….

I vettori in 3, cioè i segmenti orientati, sono caratterizzati da una direzione (la retta su cui giacciono) un verso ed un modulo (cioè la loro lunghezza). Il modulo di un vettore v è usualmente denotato come |v| o, quando non vi sia pericolo di confusione, semplicemente come v. Notiamo che il punto di applicazione (cioè il punto da cui parte la freccia) non fa parte della definizione di vettore, anche se può essere importante per certi scopi, ad esempio quando il vettore corrisponde ad uno spostamento o ad una forza).

Proprietà fondamentali dei vettori Le proprietà che più tipicamente caratterizzano i vettori, e possono venire generalizzate per costruire “spazi vettoriali” contenenti oggetti diversi dai segmenti orientati, sono le seguenti.

Dalle proprietà precedenti segue che combinazioni lineari di vettori, del tipo

λ1v1 + λ2v2 + + λNvN (2.10)

sono ancora vettori.

Prodotto scalare Il prodotto scalare è un’operazione che ad una coppia di vettori associa un numero reale:

w,v v w |v||w| cos θ, (2.11)

dove θ è l’angolo compreso tra i due vettori, vedi fig. 2.11.


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Figura 2.11: Il prodotto scalare tra due vettori dipende dall’angolo compreso tra di essi.

Il prodotto scalare è s̀immetrico ed è distributivo rispetto alla somma vettoriale.

v w = w v,v (w + y) = v w + v y. (2.12)

Dalla definizione (2.11) segue immediatamente che v (λw) = λ(v w); combinando questo con la proprietà distributiva, eq. (2.12), vediamo che il prodotto scalare è un operazione lineare nel secondo argomento:

v (λ1w1 + λ2w2) = λ1v w1 + λ2v w2, (2.13)

e ed è lineare anche nel primo come conseguenza della sua simmetria.

Notiamo che il prodotto scalare di un vettore con se stesso non è altro che il suo modulo quadro:

v v = |v|2, (2.14)

dato che in questo caso l’angolo compreso è nullo.

I vettori e di lunghezza uno2, cioè tali che e e = 1, sono detti versori. Essi specificano una direzione ed un verso. Dato un vettore qualsiasi possiamo ottenere il versore corrispondente (cioè con la stessa direzione e verso) come e = v|v|. Il prodotto scalare di due versori è semplicemente dato dal coseno dell’angolo compreso:

e1 e2 = cos θ. (2.15)

Avere una definizione di prodotto scalare equivale dunque a saper definire lunghezze ed angoli.

Proiezione di un vettore lungo un versore La proiezione di un vettore y nella direzione individuata da un versore e, si ottiene con la costruzione riportata in figura 2.12.


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Figura 2.12: Proiezione di un vettore v lungo un versore e.

Il risultato è un vettore di modulo |y| cos θ, dove θ è l’angolo compreso tra y e e, e di direzione e verso quelli di e. Notando che |y| cos θ = y e, come segue dall’eq. (2.11), il risultato è scrivibile come

(y e)e. (2.16)

Proiezione di un vettore lungo un altro La proiezione di un vettore y lungo un generico vettore v , che denotiamo come yv, si ottiene sempicemente individuando innanzitutto il versore corrispondente a v, cioè v|v|, e poi applicando la formula precendente: il vettore proiettato è dunque dato da

yv = (y v) |v| v |v|. (2.17)

Indipendenza lineare Un insieme di vettori v1,v2,vn si dice linearmente dipendente se se ne può trovare una particolare combinazione lineare che si annulla, cioè se per qualche scelta dei coefficienti λi (i = 1,n) si ha

λ1v1 + + λnvn = 0. (2.18)

I vettori di tale insieme si dicono linearmente indipendenti se non è possibile ottenere una tale relazione.

Retta reale Nello spazio uni-dimensionale, ogni coppia di vettori è linearmente dipendente.


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Figura 2.13: In una dimensione, ogni coppia di vettori è linearmente dipendente.

Infatti, vedi figura 2.13, dato un vettore v, ogni altro vettore w si può scrivere come

w = ±|w| |v|v, (2.19)

così che si ha la relazione

w |w| |v|v = 0. (2.20)

In altre parole, lungo la retta reale tutti i vettori sono proporzionali ad un unico versore. Essa rappresenta uno spazio vettoriale uni-dimensionale.

Piano Nel piano si possono avere al più due vettori linearmente indipendenti.


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Figura 2.14: Nel piano, ogni vettore y può essere espresso come combinazione lineare di due vettori fissati v e w.

Infatti, come illustrato in figura 2.14, dati due vettori v e w linearmente indipendenti (cioè non nella stessa direzione) ogni altro vettore y può venire ottenuto, tramite la regola del parallelogramma, come somma di due vettori proporzionali a v e w, che sono null’altro che le proiezioni di y lungo di essi: y = yv + yw. Il piano è uno spazio vettoriale di dimensione due.

Spazio tri-dimensionale In maniera del tutto analoga, è facile convincersi che nello spazio piatto non si possono avere più di tre vettori linearmente indipendenti, ovverossia che lo spazio è uno spazio vettoriale di dimensione tre.

Basi di vettori Nello spazio tri-dimensionale, per quanto appena detto, possiamo scegliere arbitrariamente una base {v1,v2,v2} di tre vettori linearmente indipendenti tra di loro ed esprimere qualsiasi vettore v come combinazione lineare di essi:

v = λ1v1 + λ2v2 + λ3v3. (2.21)

Fissata una base, quindi, un vettore v nello spazio tri-dimensionale è univocamente identificato da una terna di numeri reali (λ1,λ2,λ3). Lo spazio dei vettori spaziali è dunque isomorfo a 3, lo spazio delle terne di numeri reali.

Basi ortonormali in tre dimensioni In particolare, è particolarmente conveniente scegliere una base orto-normale (base O.N.), cioè una base di tre versori ortogonali fra di loro, per i quali è tradizionale usare la notazione {i,j,k}, vedi figura 2.15.


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Figura 2.15: Decomposizione di un vettore v rispetto ad una base O.N. {i,j,k}.

Essi soddisfano dunque le relazioni

i i = j j = k k = 1, i j = i k = j k = 0, (2.22)

ed individuano tre direzioni ortogonali e tre versi. Qualsiasi vettore può venire decomposto rispetto ad essi:

v = vxi + vyj + vzk. (2.23)

Le componenti (vx,vy,vz) sono date dalle proiezioni del vettore v sui tre versori:

vx = v i,vy = v j,vz = v k, (2.24)

come si vede facilmente applicando le relazioni in eq. (2.22). Notiamo che, fissata la base O.N., possiamo rappresentare un vettore tramita la terna delle sue componenti:

v(vx,vy,vz). (2.25)

Queste definizioni sono facilmente generalizzabili. In qualsiasi spazio vettoriale di dimensione n (cioè che ammette al più n vettori linearmente indipendenti) dotato di un prodotto scalare è possibile scegliere una base O.N. In particolare, nel piano e sulla retta possiamo scegliere delle basi che usualmente indicheremo come {i,j} e {i} rispettivamente.

Espressione in componenti della somma vettoriale E’ facile mostrare chem, dati due vettori v, di componenti (vx,vy,vz), e w, di componenti (wx,wy,wz), le componenti del vettore somma sono semplicemente la somma delle componenti dei due:

v + w(vx + wx,vy + wy,vz + wz). (2.26)

La figura ?? illustra questa proprietà in un caso bi-dimensionale.


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Figura 2.16: La componente (v + w)x è ottenuta aggiungendo a vx un tratto di lunghezza wx.

Espressione in componenti della moltiplicazione per uno scalare Se un vettore viener moltiplicato per un numero reale, anche le sue componenti risultano moltiplicate per lo stesso numero:

λv(λvx,λvy,λvz). (2.27)

Espressione in componenti del prodotto scalare Dati due vettori

v = vxi + vyj + vzk,w = wxi + wyj + wzk, (2.28)

usando la linearità del prodotto scalare e le proprietà di ortonormalità dei versori di base, eq. (2.22), si ha

v w = (vxi + vyj + vzk) (wxi + wyj + wzk) = vxwxi i + vxwyi j + + vzwzk k = vxwx + vywy + vzwz. (2.29)

Possiamo dunque scrivere, se usuamo la rappresentazione in componenti, che

(vx,vy,vz) (wx,wy,wz) = vxwx + vywy + vzwz. (2.30)

Basi O.N. e coordinate cartesiane Come discusso prima, fissata una base O.N. {i,j,k}, lo spazio del vettori in tre dimensioni è isomorfo a 3. Viceversa, noi possiamo vedere lo spazio ambiente 3, i cui elementi sono i punti, come uno spazio vettoriale. Se fissiamo arbitrariamente un’origine O, infatti, ad ogni punto P possiamo associare un segmento orientato OP¯, che è il vettore che descrive lo spostamento del punto rispetto all’origine e che denoteremo come x. Da questo punto di vista, introdurre una base O.N. corrisponde ad introdurre un sistema di assi cartesiani e scrivere

x = xi + yj + zk. (2.31)

Esprimere x tramite le sue componenti: x(x,y,z) corrisponde dunque ad assegnare al punto P le sue coordinate cartesiane: P(x,y,z) rispetto a tali assi.

2.3 La legge oraria

Supponiamo che il punto si possa muovere in uno spazio M, che per noi sarà quasi sempre lo spazio piatto tri-dimensionale, 3, bi-dimensionale, 2 o uni-dimensionale, , ma potrebbe anche essere uno spazio curvo, quale la superficie della Terra.


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Figura 2.17: Legge oraria per il moto di un punto nello spazio ambiente M

Come rappresentato in fig. 2.17, il moto di un punto è descritto da una funzione P da (o da un suo intervallo) in M, che assegna ad ogni istante t uno specifico punto P(t). Tale funzione è detta legge oraria del moto.

Per avere una descrizione quantitativa della legge oraria P(t) si introduce un sistema di coordinate su M, di modo che ogni punto P(t) sia individuato da una n-pla di numeri reali3, le sue coordinate. La legge oraria specifica è a tal punto descritta da n funzioni reali (le coordinate) di variabile reale (il tempo).

Legge oraria in coordinate cartesiane In particolare, sullo spazio piatto 3 possiamo scegliere un sistema cartesiano di coordinate (x,y,z). La legge oraria sarà allora espressa come

x(t),y(t),z(t) . (2.32)

Ad esempio, la legge

x(t),y(t),z(t) = (0, 0, 0) (2.33)

corrisponde ad un punto che se ne sta fermo nell’origine del nostro sistema di coordinate.

Legge oraria in altri sistemi di coordinate E’ perfettamente lecito, e può essere conveniente in certi casi, utilizzare altri sistemi di coordinate per esprimere la legge oraria.


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Figura 2.18: La legge oraria in eq. (2.34) corrisponde ad un moto circolare uniforme.

Ad esempio, per un moto nel piano 2, possiamo usare le coordinate polari (r,φ) ed esprimere la legge oraria come (r(t),φ(t)). In tali coordinate, la legge oraria

r(t),φ(t) = (r0,ωt), (2.34)

dove r0 e ω sono due costanti, di dimensioni rispettivamente di [L] e [t]-1, corrisponde ad un moto circolare uniforme nel piano, vedi fig. 2.18: al variare di t il punto P(t) mantiene la stessa distanza r0 dall’origine mentre il suo angolo φ(t) varia linearmente con t, cosicché il punto percorre una circonferenza.

Formulazione vettoriale della legge oraria Nel caso di spazi piatti, ad esempio 3, abbiamo visto che le coordinate cartesiane, ad esempio (x,y,z), possono venir riguardate come le componenti del vettore spostamento di P rispetto all’origine, x = OP¯. La legge oraria si può dunque anche scrivere in notazione vettoriale: in 3, ad esempio,

x(t) = x(t)i + y(t)j + z(t)k. (2.35)

______________________

Esempio Consideriamo la legge oraria nel piano data da

x(t) = t t0x0, (2.36)

valida per t > 0, con t0 = 1s e dove x0 = i - 2j è un vettore fisso, le cui componenti sono misurate in metri. Analizziamo il moto descritto da questa legge. Analizzando la posizione a tempi successivi abbiamo la seguente tabella:





tempo posizione


t = 0sx(0) = 0
t = 1sx(0) = x0
t = 4sx(0) = 2x0
t = 9sx(0) = 3x0





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Figura 2.19: Moto descritto dalla legge oraria vettoriale di eq. (2.36).

Come descritto anche in figura 2.19, il punto si muove su una semiretta la cui direzione e verso sono individuati da x0, allontanandosi dall’origine sempre meno rapidamente.

La stessa legge oraria può essere espressa in componenti. Infatti,

x(t) = t t0x0 = t t0(i - 2j) (2.37)

così che le componenti sono

x(t) = t t0,y(t) = -2 t t0. (2.38)

Cinematica e studio di funzioni La legge oraria contiene tutta l’informazione descrittiva sul moto. Per “capire” e analizzare cosa sta succendendo è necessario estrarre tale informazione studiandone l’espressione esplicita in coordinate (o in forma vettoriale). Studiare la legge oraria espressa in coordinate corrisponde a studiare n funzioni reali (le coordinate) di variabile reale (il tempo). Si applicano quindi gli strumenti di analisi matematica standard che avete appreso nel corso di Analisi. In effetti, molti dei concetti cardine dell’analisi, quali derivate, massimi, minimi, …, sono radicati, anche storicamente, proprio nella cinematica. Per “capire” il moto descritto da una legge oraria, infatti, è conveniente introdurre grandezze derivate quali la velocità e l’accelerazione che, come vedremo, corrispondono al concetto di derivata e derivata seconda della posizione.

2.3.1 Spostamento e distanza

Consideriamo un moto che avvenga durante un intervallo di tempo [ti,tf]; useremo spesso la notazione Δt = tf - ti. Cominciamo per semplicità dal caso uni-dimensionale, vedi fig. 2.20.


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Figura 2.20: Esempio di legge oraria di un moto unidimensionale.

La legge oraria P(t) sarà dunque espressa semplicemente tramite una funzione reale di variabile reale x(t) , dove x è la coordinata scelta lungo l’unica dirzione di moto. Denotiamo come xi e xf le posizioni iniziali e finali del punto:

xi x(ti),xf x(tf). (2.39)

Spostamento Una delle prime cose che possiamo chiederci su questo moto è: di quanto si è spostato il punto? la risposta è immediata:

Δx = xf - xi. (2.40)

Questa quantità (lo spostamento) è in realtà un vettore uni-dimensionale Δx = PiPf¯ = xf -xi.

Distanza percorsa Una seconda, ovvia, domanda è: quanta distanza ha percorso il punto durante il moto? La risposta qui è meno immediata. Infatti il moto avviene come segue, vedi fig. 2.21.


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Figura 2.21: Il percorso del punto descritto dalla legge oraria in fig. 2.20.

Il punto dapprima “va oltre” xf,fino ad xm, poi torna indietro. La distanza percorsa d è dunque, in questo caso,

d = |xf - xi| + 2|xm - xf| (2.41)

e per determinarla è necessario individuare il punto di massimo xm. La distanza percorsa è una grandezza scalare e non vettoriale.

Alcune osservazioni.

  1. Le due informazioni, spostamento e distanza percorsa, sono utili per scopi diversi. Supponiamo che il punto rappresenti una macchina in moto lungo una strada. Il contachilometri segna la distanza percorsa d. E’ questa la grandezza rilevante, ad esempio, per il consumo di carburante. Lo spostamento non tiene in conto del percorso fatto: conta solo il risultato finale!
  2. Questi concetti si generalizzano allo studio della dipendenza temporale di altre grandezze, oltre allo spazio. Ad esempio, consideriamo il valore (attualizato) s di uno stock di azioni al passare del tempo, vedi fig. 2.22.

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    Figura 2.22: Dipendenza dal tempo del valore di uno stock di azioni.

    In fin dei conti4 l’unica cosa che conta è lo “spostamento” sf - si, cioè il guadagno.

  3. In dimensioni maggiori di uno, il carattere vettoriale dello spostamento, in contrasto alla natura scalare della distanza percorsa, risulta più evidente, vedi fig. 2.23:
    Δx = xf -xi = PiPf¯. (2.42)

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    Figura 2.23: Natura vettoriale dello spostamento.

  4. Per un qualsiasi percorso chiuso, cioè tale che xf = xi, lo spostamento è nullo, la distanza (in generale) no.

______________________

Esempio Consideriamo il moto circolare uniforme descrito dalla legge oraria, già considerata precedentemente in eq. (2.34),

r(t) = r0,φ(t) = ωt, (2.43)

tra l’istante iniziale ti = 0 e l’istante finale tf = 2πω, vedi fig. 2.24.


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Figura 2.24: Esempio di percorso chiuso: moto circolare uniforme durante un periodo 2πΩ.

All’istante iniziale si ha

r(ti) = r0, φ(ti) = 0 x(ti) = r0 cos(0) = r0, y(ti) = r0 sin(0) = 0. (2.44)

A quello finale si ha

r(tf) = r0, φ(tf) = 2π x(ti) = r0 cos(2π) = r0, y(ti) = r0 sin(2π) = 0. (2.45)

Le posizioni iniziali e finali coincidono, dato che la variabile angolare φ è periodica di periodo 2π, e lo spostamento è dunque nullo:

Δx = xf -xi = 0. (2.46)

La distanza percorsa d, invece, è la lunghezza della circonferenza tracciata dal punto nel suo moto:

d = 2πr0. (2.47)

2.3.2 Velocità media

Oltre a distanza percorsa e spostamento totale, ci può interessare sapere “quanto in fretta” tale spostamento è avvenuto. Questo concetto è espresso quantitativamente dalla velocità media.

Velocità media La velocità media è definita come

vm = Δx Δt = xf -xi tf - ti . (2.48)

Osserviamo che:

______________________

Esempio Consideriamo il moto bi-dimensionale la cui traiettoria è riportata in fig. 2.25.


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Figura 2.25: Esempio di moto bi-dimensionale, tra l’istante iniziale ti = 1s e quello finale tf = 9s.

Esso si svolge tra il tempo ti = 1s e il tempo tf = 9s, e ha punti iniziali e finali

xi (xi,yi) = (1,1)m,xf (xf,yf) = (4,2)m. (2.50)

Abbiamo quindi Δt = (9 - 1)s = 8s, mentre il vettore spostamento ha componenti

(Δx,Δy) = (xf - xi,yf - yi) = (3,1)m. (2.51)

Le componenti della velocità media sono dunque

(vm,x,vm,y) = 1 Δt(Δx,Δy) = 1 8(3,1)ms-1. (2.52)

______________________

Nel caso uni-dimensionale, in cui la velocità media ha una sola componente vm, è facile darne un’interpretazione grafica, vedi fig. 2.26.


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Figura 2.26: Interpretazione geometrica nel piano (x,t) della velocità media.

Essa rappresenta la pendenza della retta che unisce i punti iniziali e finali nel piano (x,t):

vm = Δx Δt = tan α. (2.53)

In più dimensioni, con coordinate xi (i = 1,n), la velocità media vm ha n componenti vm,i, ciascuna delle quali ha questa interpretazione grafica nel piano (xi,t).

Esercizio Consideriamo il moto tri-dimensionale descritto dalla legge oraria

x(t)= 1 + 2t y(t)= -t z(t)= 20 - 5t2, (2.54)

dove le lunghezze sono misurate in metri e il tempo t, che varia tra ti = 0 e tf = 2, in secondi.


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Figura 2.27: Raffigurazione del moto descritto dalla legge oraria in eq. (2.54).

In fig. 2.27 è rappresentato nello spazio questo moto. Calcoliamo la velocità media e il suo modulo. Siccome

xi x(0),y(0),z(0) = (1,0,20) (2.55)

e

xf x(2),y(2),z(2) = (5,-2,0) (2.56)

troviamo

Δx = xf -xi = 4i - 2j - 20k (2.57)

e quindi

vm = Δx Δt = 1 2 4i - 2j - 20k = 2i -j - 10k, (2.58)

cioè, in componenti,

(vm,x,vm,y,vm,z) = (2,-1,-10). (2.59)

Il modulo della velocità media è dunque

|vm| = vm,x 2 + vm,y 2 + vm,z 2 = 105ms-1. (2.60)

______________________

Velocità scalare media La velocità scalare media è definita come

vs,m d Δt, (2.61)

dove d è la distanza percorsa. Questa quantità:

______________________

Esempio Consideriamo nuovamente un moto circolare uniforme, vedi fig 2.24, con legge oraria

r(t) = r0,φ(t) = ωt, (2.62)

con t che varia tra ti = 0 e tf = 2πωs. Abbiamo già ricavato in precedenza il vettore spostamento e la distanza percorsa:

Δx = 0,d = 2πr0. (2.63)

Abbiamo pertanto

vm = 0,vs,m = 2πr0 Δt = ω 2π2πr0 = ωr0. (2.64)

2.3.3 Moto rettilineo uniforme

Nel moto rettilineo uniforme la legge oraria è tale che, scelto un qualsiasi intervallo Δt durante il moto, la velocità media risulta sempre la stessa: si può quindi dire che il moto avviene a velocità costante. La legge oraria, scritta in notazione vettoriale, è la seguente:

x(t) = x0 + vt, (2.65)

dove x0 rappresenta la posizione al tempo t = 0. Dato un qualsiasi intervallo temporale [t1,t2], si ha

vm = Δx Δt = x(t2) -x(t1) t2 - t1 = x0 + vt2 -x0 -vt1 t2 - t1 = v. (2.66)

Il vettore v, il cui modulo |v| denoteremo semplicemente come v, rappresenta dunque la velocità costante cui avviene il moto.

Traiettoria Dalla legge oraria (2.65) segue che il vettore spostamento è sempre proporzionale a v; la traiettoria del punto nello spazio giace sulla retta la cui cui direzione è specificata da v, vedi fig. 2.28.


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Figura 2.28: Il moto rettilineo uniforme avviene su una retta la cui direzione è individuata da v.

Questo tipo di moto è dunque effettivamente uni-dimensionale. Possiamo infatti scegliere nuovi assi cartesiani di modo che uno di essi, che potremmo denotare ad esempio come asse X, abbia la direzione ed il verso di v: avremo così bisogno di una sola coordinata per individuare la posizione del punto lungo il moto. La legge oraria sarà semplicemente scrivibile come

X(t) = X0 + vt. (2.67)

Il grafico di questa legge oraria nel piano (X,t) è quello di una retta, vedi fig. 2.29.


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Figura 2.29: Nel moto rettilineo uniforme la velocità media è la stessa in ogni intervallo.

Risulta quindi evidentente anche da ragionamenti geometrici (similitudine di triangoli) che, per qualsiasi coppia di intervalli Δt1, Δt2 scelta, si ottiene sempre la stessa velocità media:

ΔX1 Δt1 = ΔX2 Δt2 = v. (2.68)

Nella formulazione uni-dimensionale di eq. (2.67) è anche evidente che per il moto rettilineo uniforme5, in ogni intervallo di moto, la velocità scalare media vm,s coincide con v:

vs,m = d Δt = |ΔX| Δt = v. (2.69)

Infine, siccome ΔX = vΔt, si può notare, come descritto in fig. 2.30, che lo spazio percorso corrisponde all’area sottesa al grafico della velocità.


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Figura 2.30: Nel moto rettilineo uniforme lo spazio percorso corrisponde all’area sottesa al grafico (costante) della velocità.

______________________

Esempio Consideriamo il caso di un moto rettilineo nel piano. La legge oraria, eq. (2.65), in componenti è espressa come

x(t)= x0 + vxt, y(t)= y0 + vyt. (2.70)

Ricavando t dalla prima relazione e sostituendolo nella seconda, si trova l’espressione della traiettoria nella forma

y(x) = y0 + vyx - x0 vx = y0 -vy vxx0 + vy vxx. (2.71)

Questa è l’equazione di una retta, vedi fig. 2.31a).


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Figura 2.31: a) Traiettoria di un moto rettilineo uniforme nel piano (x,y). b) Nel sistema di riferimento (X,Y ) la descrizione del moto diviene sostanzialmente uni-dimensionale.

L’angolo di pendenza α della retta è dato da tanα = vyvx, che equivale a

cosα = vx v ,sinα = vy v ; (2.72)

infatti vx e vy sono le componenti del vettore v lungo gli assi (x,y), e sono quindi date da vx = vcosα, vy = vsinα, vedi eq. (2.16).

Possiamo introdurre il nuovo sistema di riferimento con coordinate (X,Y ) disegnato in fig. 2.31b), centrato nel punto O di coordinate (x0,y0) e ruotato di un angolo α riespetto al vecchio sistema.

Utilizzando le formule di passaggio tra S.R. relativamente roto-traslati date in eq. (2.4) nelle nuove coordinate (X,Y ) la legge oraria è data da

X(t) = cosα(x(t) - x0) + sinα(y(t) - y0) = vx v vxt + vy v vyt = vx2 + vy2 v t (2.73)

e

Y (t) = -sinα(x(t) - x0) + cosα(y(t) - y0) = -vy v vxt + vx v vyt, (2.74)

cioè diviene semplicemente

X(t)= vt, Y (t) = 0. (2.75)

______________________

Esercizio Al tempo t1 = 0s un punto si trova nella posizione x1 = (1 ± 0.1,2 ± 0.1)m nel piano (da ora in poi non scriviamo più le unità di misura). Al tempo t2 = (4 ± 0.2) si trova nel punto x2 = (9 ± 0.1,4 ± 0.1). Sapendo che il moto è rettilineo uniforme, dove si troverà al tempo t3 = 10? (Fornire la risposta con la stima della sua incertezza).

______________________

Esempio L’esempio seguente sull’uso delle leggi orarie del moto uniforme ha alcune pretese “culturali”, parla infatti di filosofi greci...

La tartaruga parte dalla posizione x = 0 e si muove di moto rettilineo uniforme. Quando essa si trova in x1, parte da x = 0 Achille, con velocità doppia. Quando Achille giunge in x1, la tartaruga si è già spostata in una posizone x2. Quando Achille giunge in x2, la tartaruga è gia’ in x3, e così via. Achille, pertanto, non raggiungerà mai la tartaruga.

(Libera parafrasi da Zenone l’Eleate). Vogliamo confutare tale affermazione e spiegare l’apparente ben noto paradosso. La legge oraria dalla tartaruga è

xT (t) = vt, (2.76)

dove v è la velocità della tartaruga. Essa dunque giunge in x1 al tempo

t1 = x1 v . (2.77)

A tale istante, Achille parte da x = 0. La legge del moto di Achille (valida per t > t1) è dunque

xA(t) = 2v(t - t1) = 2v t -x1 v . (2.78)

Infatti, la sua velocità è 2v, e al tempo t = t1 si deve trovare in 0. Achille raggiunge la tartaruga al tempo ti in cui i due protagonisti si trovano nella stessa posizione, vedi fig. 2.32.


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Figura 2.32: Grafico dei moti di Achille e della tartaruga.

Imponiamo dunque l’equazione

xA(ti) = xT (ti) 2v ti -x1 v = vti (2.79)

che determina immediatamente

ti = 2x1 v . (2.80)

In tale istante, la posizione dei due è (usando ad esempio la legge del moto della tartaruga)

xi = xT (ti) = vti = 2x1. (2.81)

Achille, dunque, raggiunge la tartaruga qundo questa si trova nella posizione 2x1: Zenone ha torto (e ci mancherebbe!). Tuttavia, il suo ragionamento è in buona parte corretto. Non vi è contraddizione tra queste due affermazioni, vediamo perché. Consideriamo le posizioni della tartaruga e di Achille in istanti successivi, scelti come nel ragionamento di Zenone. Quando Achille raggiunge la posizione x1, la tartaruga (che va’ alla metà della velocità di questo) ha percorso un tratto lungo x12, e si trova quindi in x1 + x12. Quando Achille ha raggiunto questo punto percorrendo un tratto lungo x12, la tartaruga ha fatto un’altro x14, eccetera. Riportiamo in una tabella queste posizioni:





xT xA


x1 0
x1 + x1 2 x1
x1 + x1 2 + x1 4 x1 + x1 2
x1 + x1 2 + x1 4 + x1 8 x1 + x1 2 + x1 4


Le due posizioni possono diventare uguali se e solo se le somme vengono estese ad infiniti termini! Quindi, da questo punto di vista, Achille può raggiunge la tartaruga nel punto

xi = x1(1 + 1 2 + 1 4 + 1 8 + ) = x1Σk=01 2k. (2.82)

Dal confronto con il risultato in eq. (2.81) ottenuto tramite le leggi del moto uniforme, possiamo dedurre che si deve avere

Σk=01 2k = 2. (2.83)

In effetti, questo è un caso particolare della cosiddetta serie geometrica

Σk=0qk = 1 1 - q,per |q| < 1. (2.84)

Approssimazione di un moto generico con moti rettilinei uniformi Consideriamo un moto, uni-dimensionale per semplicità, descritto da una generica legge oraria x(t), tra gli istanti ti e tf. Come illustrato in fig. 2.33, una prima grossolana descrizione approssimata del moto è quella rappresentata da un moto rettilineo uniforme con velocità v = vm = ΔxΔt.


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Figura 2.33: Un moto rettilineo uniforme con velocità vm fornisce una cruda approssimazione del moto reale.

Esso arriva e parte negli stessi punti del moto “vero”, impiegando lo stesso tempo, cioè ha gli stessi estremi nel piano (x,t).

Rappresentazioni via via più fedeli si ottengono suddividendo l’intervallo di moto Δt in tanti sotto-intervalli Δt(i) = t i+1 - ti scegliendo dei tempi intermedi ti; denotiamo come xi le posizioni x(ti), vedi fig. 2.34a).


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Figura 2.34: a) Suddividendo un moto in intervallini di moto uniforme si ottiene una migliore approssimazione del moto.

In ogni sotto-intervallo si calcola la velocità media

v(i) = xi+1 - xi ti+1 - ti (2.85)

e si utilizza la legge del moto uniforme con tale velocità. In pratica, si approssima il grafico della legge oraria x(t) con una spezzata. Tale spezzata si avvicina al moto reale quanto più rendiamo piccoli gli intervallini in cui suddividiamo il moto. Notiamo che, come rappresentato in fig. 2.34b), per il moto uniforme in ogni intervallino la relazione Δx(i) = v(i)Δt(i) ci dice che lo spostamento corrisponde al’area del rettangolo che sta sotto il grafico della velocità costante in tale intervallino. Ne consegue che lo spostamento totale Δx = ΣiΔx(i) è l’area sottesa alla linea spezzata che descrive le velocità medie.

2.4 Velocità ed accelerazione

...

2.4.1 Velocità istantanea

Rimaniamo per semplicità nel contesto del moto uni-dimensionale. Procedendo come nel paragrafo precedente e scegliendo intervalli infinitesimi di suddivisione del moto, si ottiene una quantità che descrive istante per istante la rapidità del moto, detta velocità istantanea:

v(t) = lim Δt0Δx Δt = lim Δt0x(t + Δt) - x(t) Δt = dx(t) dt . (2.86)

La velocità istantanea, dunque, non è nientáltro chela derivata temporale della legge oraria. Come ben noto dall’analisi, e come risulta evidente se ci si immagina di scegliere nella figura 2.34 intervallini sempre più piccoli, il significato geometrico della derivata è legato alla pendenza della retta tangente alla curva in un punto. Se denotiamo come α(t) l’angolo che definisce la pendenza della retta tangente alla curva in x(t), abbiamo

tan α(t) = dx(t) dt = v(t). (2.87)

Capitolo 3
Dinamica

La Dinamica si occupa delle cause del moto; più precisamente, come vedremo, si occupa di come le forze esercitate dall’esterno sugli oggetti ne variino lo stato di moto.

3.1 Concetto intuitivo e definizione operativa delle forze

E’ nostra esperienza quotidiana che per mettere in moto un oggetto sia necessaria un’interazione. Quest’interazione può corrispondere a:

In realtà, come discuteremo brevemente in seguito, non vi è una distinzione così netta tra i due casi. Le forze di contatto tra oggetti macroscopici hanno un’origine microscopica in forze a livello molecolare ed atomico che, a loro volta, sono dovute principalmente ai campi di forze di tipo elettrico indotti dalle cariche dei loro componenti elementari. Tuttavia, nell’analizzare fenomeni macroscopici, è conveniente mantenere questa distinzione.

E’ anche chiaro dalla nostra esperienza che una forza che, applicata ad un oggetto libero, ne cambia lo stato di moto, se applicata ad un oggetto vincolato ha un effetto statico di deformazione dell’oggetto stesso.

Definizione operativa - Misura di una forza La forza è una grandezza di cui abbiamo una buona intuizione. Dal punto di vista fisico, però, è necessario darne una definizione operativa. Deve essere possibile misurare le forze tramite il confronto con una unità campione di forza. Per fare ciò possiamo ricorrere all’effetto di deformazione che le forza inducono su di una molla, allungandola.

Supponiamo di appendere, qui sulla superficie della Terra, un corpo all’estremità di una molla. Al corpo sappiamo che è applicata una forza peso; ora, tuttavia, il corpo non cade. In compenso la molla subisce una elongazione rispetto alla sua condizione di riposo, vedi fig. 3.1.


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Figura 3.1: a) Un grave libero è soggetto ad una forza peso fp che lo accellera verso il basso. b) Se appeso ad una molla, l’effetto della forza peso è di deformare la molla rispetto alla sua posizione di riposo xR.

La legge di Hooke Corpi diversi, in generale, subiscono forze peso diverse e producono allungamenti diversi di una stessa molla. Supponiamo di avere una collezione di oggetti campione, ciascuno con una forza peso fp, che producono il medesimo allungamento δx. Possiamo misurare l’allungamento totale Δx che si produce quando appendiamo n (due o pù) di questi oggetti, che subiranno una forza peso totale Fp = nfp, vedi fig. 3.2. Troviamo che (entro un certo limite, cioè prima che la molla si “snervi”) si ha Δx = nδx.


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Figura 3.2: L’allungamento di una molla è direttamente proporzionale alla forza applicata.

Possiamo dunque concludere che l’allungamento di una molla è direttamente proporzionale alla forza applicata (legge di Hooke):

Δx = kF, (3.1)

dove k è una costante dimensionale che caratterizza la mollam stessa.

Il dinamometro Questa proporzionalità ci permette di usare un dinamometro, cioè una molla opportunamente tarata, per misurare l’intensità delle forze, vedi fig. 3.3.


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Figura 3.3: Dotando una molla di una scala per misurarne l’allungamento si ottiene uno strumento per misurare le forze applicate, detto dinamomentro.

Possiamo dichiarare che l’unità di forza corrisponde ad un certo allungamento del nostro dinamometro ed usare quest’ultimo come unità di misura dell’allungamento stesso in una scala graduata1. Se applicando al dinamometro una forza F leggiamo sulla scala dello strumento un allungamento pari a 2 unità, possiamo concludere che il modulo della forza appplicata è 2, nella nostra unità.

Natura vettoriale delle forze. Somma di forze. Sperimentando con il dinamometro, è facile rendersi conto della natura vettoriale delle forze. infatti, come mostrato in fig. 3.4, si può anche tener conto della direzione in cui la forza applicata estende il dinamometro; in questo senso le forze applicate possono essere pensate come vettori.


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Figura 3.4: L’applicazione simultanea delle due forze F1 e F2, tenendo conto anche della direzione di deformazione, porta allo stesso effetto della somma vettoriale F1 + F2.

Se si confrontano, in questo quadro, le deformazioni prodotte da due forze F2 ed F2 con quella che si ottiene applicando entrambe le forze, si trova che la seconda corrisponde alla deformazione prodotta dalla somma vettoriale F1 + F2: le forze dunque si comportano a tutti gli effetti come vettori. Spesso la somma vettoriale delle forze agenti su un corpo è detta la (forza) risultante.

3.2 Le leggi fondamentali del moto

Le forze applicate agli oggetti, ed in particolare ai punti materiali, ne variano lo stato di moto,in un modo che è codificato in tre leggi.

3.2.1 La prima legge del moto

Nell’esperienza quotidiana si può avere l’impressione che sia necessario applicare una forza per mantenere in moto un oggetto. Questa impressione è però dovuta al fatto che spesso vi sono forze di attrito (che discuteremo in seguito) che si oppongono al moto. In realtà un corpo non soggetto a forze (cioè un corpo non interagente) tende a mantenere il suo stato di moto: questo è il principio di inerzia formulato da Galileo. Tale principio è stato riformulato come “prima legge del moto” da Newton, e può venire espresso con più precisione come segue:

Se un corpo non interagisce con altri corpi è possibile trovare un sistema di riferimento in cui esso ha accelerazione nulla, e si muove pertanto di moto rettilineo uniforme.

Non si può semplicemente dire che un corpo non interagente si muove di moto rettilineo uniforme, perchè, come discusso nel capitolo precedente, il tipo di moto dipende dal sistema di riferimento usato.

Sistemi inerziali Un sistema di riferimento in cui un corpo non soggetto a forze non accellera è detto un sistema inerziale.

Riassumendo, la prima legge del moto dice che, quando su un corpo non agisce complessivamente alcuna forza, la sua accelerazione è nulla, se valutata in un sistema di riferimento inerziale.

3.2.2 La seconda legge del moto

La seconda legge del moto ci dice cosa avviene quando su di un corpo si ha una forza risultante F non nulla: il corpo accellera, e l’accelerazione è direttamente proporzionale ad F. Questo viene usualmente scritto nella forma

F = ma. (3.2)

Il coefficiente di proporzionalità m è detto massa (più precisamente, massa inerziale) del corpo. Esso rappresenta una caratteristica intrinseca di ogni corpo e può essere ricavato applicando una forza nota ad un corpo e misurandone la conseguente accelerazione.

La quantità di moto La seconda legge della dinamica, scritta nella forma (3.2), è valida quando la massa m è costante nel tempo. La si può però riscrivere un una forma diversa introducendo la quantità di moto di un corpo:

q mv. (3.3)

La quantità di moto è un vettore avente direzione e verso del vettore velocità, e modulo m|v|. In termini della quantit‘ị moto, la seconda legge del moto si può scrivere come segue:

F = dq dt = d(mv) dt . (3.4)

Quando la massa è costante nel tempo, cioè quando dmdt = 0, questa equazione si riduce alla (3.2); infatti, si ha in tal caso

d(mv) dt = mdv dt = ma. (3.5)

Tuttavia, essa si applica anche al caso in cui la massa varii nel tempo.

Interpretazione della seconda legge del moto E’ importante notare che l’eq. (3.2), o la (3.4), non va interpretata come una definizione della forza. L’equazione ha un contenuto non banale quando la forza F applicata al corpo in una data posizione x è nota. Allora, siccome a = d2xd2t, si ha un’equazione differenziale per la legge oraria x(t).

A volte l’equazione differenziale può essere molto semplice.

3.2.3 Un’applicazione importante: il moto armonico

In altre situazioni, la forza applicata dipende dalla posizione. Un esempio semplice ma molto importante è quello in cui un oggetto è collegato all’estremità di una molla, vedi fig. 3.5, e lasciato libero di muoversi.


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Figura 3.5: a) consideriamo una molla la cui posizione di riposo corrisponde ad x = 0. Un punto materiale attaccato all’estremità di una molla è soggetto ad una forza F = -kx, dove x corrisponde b) all’elongazione o c) alla compressione della molla stessa.

Per semplicità consideriamo il caso in cui l’oggetto è vincolato a muoversi in una direzione sola. Abbiamo detto prima, vedi eq. (3.1), che per mantenere una molla elongata2 di un tratto x è necessario applicare una forza esterna Fext = kx. Questo significa che la molla così elongata esercita una forza di richiamo opposta

F(x) = -kx. (3.6)

Si trova, con buona approssimazione, che tale espressione è valida anche per x < 0: quando la molla è compressa essa esercita una forza tendente a riportare l’estremo nella sua posizione di riposo il cui modulo è dato da k|x|, con k la stessa costante di Hooke che appare nel caso dell’elongazione.

A questo punto, per un punto materiale di massa m collegato all’estremo di una molla e lasciato libero di muoversi, la seconda legge del moto, eq. (3.2), diviene l’equazione differenziale

md2x dt2 = -kx(t). (3.7)

Poniamo

ω2 k m. (3.8)

La costante ω ha le dimensioni di t-1, cioè di frequenza. L’equazione del moto diviene quindi

d2x dt2 + ω2x(t) = 0, (3.9)

cioè un’equazione differenziale lineare del second’ordine, omogenea e a coefficienti costanti. La soluzione generica può essere scritta come3

x(t) = A cos ωt + B sin ωt, (3.10)

con A e B costanti arbitrarie. Tali costanti possono essere fissate imponendo le “condizioni iniziali” del moto, ovverossia il valore della posizione x0 e della velocità v0 al tempo4 t = 0. Siccome dall’eq. (3.10) segue che

v(t) = dx dt = -ωA sin ωt + ωB cos ωt, (3.11)

le condizioni iniziali sono

x0 = A,v0 = ωB. (3.12)

La legge oraria eq. (3.10) si può quindi esprimere come

x(t) = x0 cos ωt + v0 ω sin ωt, (3.13)

o anche come

x(t) = C cos(ωt + ϕ), (3.14)

dove la costante C e l’angolo ϕ sono legate a x0 e v0 dalle relazioni (mostrarle!)

C = x0 2 + v0 ω 2, tan ϕ = - v0 ωx0. (3.15)

Il moto descritto da questa legge oraria è periodico. Definiamo infatti il periodo

T = 2π ω , (3.16)

che ha le dimensioni di un tempo siccome ω e una frequenza (cioè [t-1]). Si ha allora

x(t + T) = x(t), (3.17)

e similmente per la velocità. Dopo un periodo, il punto si ritrova nella stessa posizione con la stessa velocità.


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Figura 3.6: Grafico di allungamento, velocità ed accelerazione nel moto armonico x(t) = x0 cos ωt. Si ha T = 2πω.

In fig. 3.6 vengono rappresentati i grafici della legge oraria, della velocità e dell’accelerazione del moto armonico, nel caso particolare in cui v0 = 0.

3.2.4 La terza legge del moto

Le forze sono sempre interazioni tra oggetti diversi. La terza legge del moto di Newton dice che per due corpi interagenti

la forza F12 esercitata dal corpo 1 sul corpo 2 è opposta alla forza F21 esercitata dal corpo 2 sul corpo 1:

F12 = -F21. (3.18)

Alcune osservazioni:

Esempio Ad esempio, la forza che agisce su un oggetto (O) in caduta libera è la forza di gravità esercitata dalla Terra (T) sull’oggetto stesso, FTO, di modulo mg, dove m è la massa dell’oggetto e g l’accelerazione di gravità. La forza di reazione FOT = -FTO è l’attrazione gravitazionale esercitata dall’oggetto sulla Terra, vedi fig. 3.7.


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Figura 3.7: Azione e reazione tra un oggetto massivo e la Terra.

Essa ha lo stesso modulo mg, ma induce un’accelerazione del tutto trascurabile dela Terra: infatti dall’eq. (3.2) si avrebbe aT = FOT MT , dove MT è la massa della Terra, che è molto grande.

Piano inclinato Consideriamo un piano inclinato come in figura 3.8. Poniamo su di esso un oggetto di massa m che consideriamo poter scivolare sul piano senza impedimenti (in altre parole, trascuriamo la presenza di attrito, che considereremo invece in seguito).


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Figura 3.8: Forze e reazioni vincolari in un piano inclinato.

Conviene analizzare la situazione (che schematizziamo come bi-dimensionale trascurando la larghezza del piano inclinato) rispetto ad un sistema di assi ortogonali diretti l’uno lungo il piano inclinato, l’altro normalmente ad esso. Sull’oggetto agisce la forza peso Fp = mg, diretta verso il basso. Se scomponiamo la forza peso nelle sua componenti tangenziali e normali al piano abbiamo

Fp,t = Fp sin θ = mg sin θ,Fp,n = Fp cos θ = mg cos θ. (3.19)

L’oggetto ha accelerazione nulla lungo la direzione normale (esso non penetra nella superficie del piano inclinato), pertanto vi è una forza di reazione vincolare Rv esercitata dal piano sull’oggetto che annulla la componente normale della forza peso. In modulo, dunque, Rv = Fp,n. La terza legge del moto implica che anche l’oggetto esercita sul piano una forza, uguale ed opposta a Rv. Questa, dato che il piano inclinanto non accelera, è a sua volta contro-bilanciata da reazioni vincolari esercitate sul piano dalle superfici cui esso è vincolato.

La componente tangenziale Fp,t non è invece bilanciata da alcuna reazione vincolare. L’oggetto dunque si muove lungo il piano inclinato sotto l’azione di Fp,n con un’accelerazione a determinata dalla seconda legge del moto:

ma = Fp,t = mg sin θ, (3.20)

da cui a = g sin θ.

3.3 Alcuni tipi di forze macroscopiche e loro caratteristiche

Nella descrizione della dinamica di oggetti macroscopici si fa uso di un gran numero di idealizzazioni, a molti livelli.

Nella dinamica del punto materiale si considera un intero oggetto come un solo punto materiale, di massa pari a quella dell’oggetto: ci si concentra sul suo moto, sotto l’influenza di forze esterne, come un tutt’uno e si trascurano tutti i suoi moti di rotazione, le sue deformazioni eccetera.

Nella dinamica del corpo rigido si raffina la descrizione, e si tiene conto della forma dell’oggetto (descritta in modo idealizzato in termini di forme geometriche semplici) e dei moti di rotazione su se stesso. I corpi però non sono totalmente rigidi, e per tener conto delle deformazioni bisogna affinare ulteriormente la descrizione. Inoltre, cercando di essere sempre più precisi, i corpi non sono generalmente omogenei, e se si scende a livello microscopico anche i corpi costituiti da una sola sostanza chimica hanno una struttura discreta molecolare ed atomica.

Insomma, la descrizione fisica della dinamica macroscopica è una descrizione efficace ottenuta tramite un modello idealizzato. Il livello di idealizzazione va scelto in base all’obiettivo che si ha nello studio di un dato fenomeno. Anche la descrizione delle forze agenti sugli oggetti macroscopici è in generale approssimata ed efficace; l’importante è che sia adeguata al problema che ci si pone.

Forze macroscopiche e microscopiche Le forze macroscopiche risultano in modo estremamente complicato da forze microscopiche che agiscono a livello molecolare e atomico. La descrizione precisa di queste ultime necessita in realtà di una descrizione quantistica. Esse nascono principalmente come effetto dei campi di forze elettriche tra i costituenti elementari. Dunque, le forze di contatto si riconducono all’effetto di campi di forze, e non c’è una distinzione intrinseca netta tra i due casi. Tuttavia, è spesso impraticabile ricondurre le forze alle loro origini microscopiche, e conviene considerarle in modo approssimato/idealizzato. Questo discorso vale, ad esempio, per le forze di attrito.

3.3.1 Forze d’attrito

Consideriamo il moto di un ogetto che avviene a contatto di una superficie cui è fatto aderire da una forza “premente” N normale alla superficie stessa (ad esempio, una cassa che viene trascinata sul pavimento). A causa delle irregolarità delle superfici a contatto e delle interazioni a livello microscopico tra i componenti dei due materiali, si viene a creare una forza, detta forza d’attrito, che si oppone al moto dell’oggetto relativo alla superficie su cui scorre.

Attrito statico Supponiamo che l’oggetto sia fermo rispetto alla superficie. Applicando una forza F parallela alla superficie, la cui intensità viene gradualmente aumentata, si trova che:

Attrito dinamico Quando il corpo si è messo in moto, la forza di attrito non scompare: si ha una forza di attrito dinamico fd, il cui modulo assume tipicamente un valore inferiore ad fs,max. Questa forza si oppone al moto relativo tra le due superfici, e quindi la forza totale agente sull’oggetto, che ne determina l’accelerazione, è F -fd. Si trova sperimentalmente che l’intensità di tale forza è diretamente proporzionale alla forza premente:

fd = μdN. (3.22)

Il coefficiente di proporzionalià μd, è detto coefficiente di attrito dinamico e dipende dalla natura delle superfici a contatto, in particolare dalla loro rugosità e dalla loro composizione chimica.

Piano inclinato scabro Consideriamo un semplice apparato, che può essere utilizzato per valutare i coefficienti di attrito, consistente di un piano inclinato di cui sia possibile variare l’angolo di inclinazione θ, vedi fig. 3.9. Sul piano inclinato viene appoggiato un’oggetto di massa m, che si appoggia sul piano tramite una superficie di contatto. In assenza di attrito, l’oggetto scivolerebbe per qualsiasi valore di θ, con un’accelerazione g sin θ dovuta alla componente della forza peso diretta lungo il piano inclinato, vedi eq. (3.20).


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Figura 3.9: Piano inclinato scabro. a) Per inclinazioni θ < θmax la forza di attrito statico compensa la componente tangenziale della forza peso e il blocco non si muove. b) per θ > θmax la forza di attrito dinamico la compensa solo parzialmente e il blocco accelera, ma meno che in assenza di attrito.

In presenza di attrito, supponiamo di incrementare gradualmente l’inclinazione del piano a partire. Inizialmente, per piccoli θ, la forza di attrito statico compensa la componente tangenziale della forza peso: in modulo,

fs = Fp,t = mg sin θ (3.23)

e il blocco non si muove, fino ad un angolo massimo θmax per il quale il blocco si mette in movimento. In tale situazione, da un lato fs,max = mg sin θmax. Dall’altro, l’eq. (3.21) ci dice che fs,max è proporzionale alla forza premente, cioè alla componente normale della forza peso:

fs,max = μsFp,n = mg cos θmax. (3.24)

Confrontando le due espressioni di fs,max troviamo che

μs = tan θmax. (3.25)

Per angoli maggiori di θmax, il blocco scivola sotto l’azione di una forza totale nella direzione tangenziale al piano data da

Fp,t - fd = Fp,t - μdFp,n = mg sin θ - μdmg cos θ. (3.26)

Se, tramite un opportuno apparato, riusciamo a determinare per quale valore θu dell’angolo il blocco, una volta meso in moto, scende di moto uniforme, allora dalla seconda legge del moto sappiamo che per tale valore la forza totale in eq.(3.26) si annulla, e quindi si ha

μd = tan θu. (3.27)

3.3.2 Forze di resistenza dipendenti dalla velocità

Gli oggetti macroscopici non si muovono generalmente (per lo meno, qui sulla superficie della Terra) nel vuoto, ma si trovano immersi in fluidi (nell’aria, o liquidi). Durante il loro moto, dunque, interagiscono con il mezzo in cui si trovano. Si crea così, in modo generalmente molto complicato a partire dalle interazioni microscopiche, una forza efficace, agente sull’oggetto, che si oppone al moto e che tipicamente dipende dalla velocità del corpo relativa al mezzo.

Moto in un fluido viscoso Un oggetto in moto all’interno di un fluido viscoso, vedi fig. 3.10 con velocità non troppo elevate, subisce una forza efficace, che si oppone al moto, proporzionale5 alla velocità stessa:

Fr = -kv. (3.28)

Questa relazione si applica anche a corpi molto piccoli (quali particelle di polvere) in moto nell’aria.


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Figura 3.10: Un oggetto scende in un fluido viscoso subisce una forza resistente Fr proporzionale alla velocità.

Consideriamo il caso in cui il corpo sia libero di cadere nel fluido sotto l’influsso della sua forza peso Fp = mg. Consideriamo il problema come uni-dimensionale, considerando solo la direzione verticale z (orientata come in figura 3.10) e la velocità v = vz. La seconda legge della dinamica eq. (3.2) ci dice che

mdv dt = Fr + Fp = -kv + mg. (3.29)

Quest’equazione differenziale è della stessa forma di quella risolta in sez. ??, vedi eq. (??); in tal caso l’analogo ruolo dell’attrito viscoso era giocato dalla Tobin tax. La soluzione corrisponde dunque (mutatis mutandis) all’eq. (??):

v(t) = mg k 1 -e-kt m ; (3.30)

il grafico di questa soluzione è disegnato in fig. 3.11.


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Figura 3.11: Il profilo temporale della velocità v(t) in eq. (3.30).

Notiamo che il corpo, col tempo, raggiunge una velocità limite costante:

vl = mg k . (3.31)

Alla velocità limite vl il membro di destra dell’eq. (3.29) si annullerebbe. Si annullerebbe quindi la sua derivata, quindi la velocità non cambierebbe più.

Resistenza dell’aria Per oggetti estesi in movimento (che supponiamo per semplicità rettilineo, quindi unidimensionale) nell’aria (o in altri fluidi gassosi) si trova sperimentalmente che, perlomeno in un regime di velocità abbastanza ampio, essi subiscono una forza che si oppone al moto il cui modulo è proporzionaleal quadrato della velocità:

Fr = -cv2. (3.32)

Consideriamo il caso in cui un oggetto sia in caduta libera nell’aria (per semplicità, con velocità iniziale nulla). La legge del moto è, in totale analogia all’eq. (3.29),

mdv dt = Fr + Fp = -cv2 + mg. (3.33)

Anche in questo caso, l’effetto della forza frenante è di far si che la velocità, invece di aumentare indefinitamente, come avverrebbe sotto la sola azione della forza peso, raggiunga una velocità limite vl. Come discusso dopo eq. (3.31), la velocità limite è quella per cui il membro di destra dell’eq. (3.33) si annulla, e nel caso presente è dunque data da

v = mg c . (3.34)

L’equazione (3.33) è a variabili separabili:

dv g - c mv2 = dt. (3.35)

Con la condizione iniziale che v(0) = 0, risolviamo integrando tra t = 0 e t nella variabile temporale6 e tra 0 e v nel membro di sinistra:

1 g0v d 1 - c mgv2 =0tdt̃ = t. (3.36)

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Figura 3.12: Il profilo temporale della velocità v(t) in eq. (3.39).

Cambiamo variabile di integrazione introducendo y = cgm; il membro di sinistra diviene

m gc0 c gmv dy 1 - y2 = m gc tanh -1 c gmv. (3.37)

Abbiamo dunque

tanh -1 c gmv = gc mt, (3.38)

da cui la soluzione

v(t) = gm c tanh gc mt. (3.39)

Il grafico di questa funzione è riportato in fig. 3.12.

3.4 Origine microscopica delle forze macroscopiche e interazioni elettriche

La distinzione netta tra forze di contatto e campi di forza che si verifica a livello macroscopico è in realtà un effetto della estrema complicazione degli oggetti macroscopici in termini dei loro costituenti elementari. A livello di questi ultimi, le interazioni sono dovute a campi di forze. In particolare, la grande maggioranza dei fenomeni emergenti a livello macroscopico hanno la loro origine microscopica nelle interazioni elettromagnetiche di tali componenti elementari.

3.4.1 Cariche elettriche e forze coulombiane

Nel corso dei secoli si è scoperto che vi sono alcuni effetti di interazione a distanza tra oggetti macroscopici che non sono ricondicibili all’interazione gravitazionale, e non dipendono quindi dalla massa degli oggetti, ma da un’altra proprietà detta “carica elettrica”.

Gli oggetti macroscopici hanno usualmente carica elettrica totale nulla, cioè sono “neutri”, ed è per questo che le forze elettrostatiche non sono state immediate da individuare e descrivere anche se l’interazione elettromagnetica tra i costituenti fondamentali è enormemente più forte di quella gravitazionale.

Tuttavia, tramite procedimenti anche semplici, quali ad esempio lo strofinio, alcuni materiali acquistano una carica elettrica. Ad esempio, dopo aver strofinato due bacchette di vetro sulla seta, esse si respingono tramite un’interazione a distanza. Similmente si respingono due bacchette di bachelite caricate per strofinio. Tuttavia una bacchetta di vetro ed una di bachelite, cariche, si attraggono. Sperimentando con altri materiali carichi per strofinio, si è trovato che essi o attraggono o respingono il vetro, e si comportano in modo opposto con la bachelite.

Proprietà fondamentali della carica elettrica Tramite queste ed altre esperienze più precise e sofisticate si è dunque stabilito che

Con esperimenti via via più raffinati si sono scoperte altre proprietà della carica elettrica. In particolare

Unità di misura nel S.I. Tramite vari tipi di effetti che la carica elettrica produce, è possibile darne una definizione operativa come grandezza fisica. Nel S.I. la carica è definita come grandezza derivata dalla corrente elettrica (grandezza che per ora non abbiamo ancora discusso), basandosi sul fatto che la carica q trasferita in in certo intervallo di tempo da una data corrente j(t) è l’integrale della corrente nell’intervallo in questione:

q =dtj(t). (3.40)

Della corrente si dà nel S.I. una definizione operativa, e quindi una definizione di unità fondamentale, tramite la forza che si crea tra due conduttori paralleli atraversati da corrente. L’unità di misura della corrente nel S.I. è detta ampere (A). L’unità derivata per la carica è il Coulomb (C), con 1C = 1A × 1s. Questa unità corrisponde ad una quantità di carica piuttosto elevata rispetto a quelle in gioco in molti semplici fenomeni elettrici; ad esempio, l’ordine di grandezza della carica acquistata per strofinio da una bacchetta di bachelite è di 10-6C. La carica elementare e, espressa in coulomb, è piccolissima:

e = 1.6021765 × 10-19C. (3.41)

In altri termini, 1C corrisponde alla carica di un numero enorme, circa 6.25 × 1018, di portatori elementari di carica (elettroni).

La forza di attrazione coulombiana Apparati sperimentali quali la bilancia di torsione hanno consentito di valutare sperimentalmente la forza di attrazione o repulsione tra le cariche elettriche. Si è trovato che due oggetti idealizzabili come puntiformi, dotati di cariche q1 e q2, esercitano reciprocamente una forza. La forza esercitata dalla carica q1 sulla carica q2 vale

F12 = keq1q2 x2 -x1 |x2 -x1|3 = keq1q2 r122 r^12, (3.42)

dove r12 = x2 -x1 è il vettore spostamento dalla posizione della prima carica x1 a quella della seconda, x2; r12 = |r12| è il suo modulo (la distanza tra le cariche) e r^12 = r12r12 il versore corrispondente, vedi fig. 3.13. Infine, ke è una costante7 che dipende dal sistema di unità di misura scelto. Nel S.I., con le forze espresse in Newton, la cariche in Coulomb e le distanze in metri, si ha

ke = 8.99 × 109Nm2C2. (3.43)

(Esercizio: controllate la correttezza dimensionale di quest’espressione).


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Figura 3.13: Forza coulombiana tra due cariche di segno discordi o concordi.

Si ha, per il pricipio di azione e reazione, che la forza esercitata da q2 si q1 vale F21 = -F12. Come rappresentato in figura 3.13,

Addività delle forze coulombiane La forza coulombiana è additiva nel senso della somma vettoriale. Dato un’insieme di cariche puntiformi qi, con i = 1,n, la forza esercitata su una di esse, diciamo qj, è data dalla somma vettoriale delle forze coulombianeesercitate su di essa da tutte le altre cariche:

Fj = ΣijFij = keqjΣij qi rji2r^ji, (3.46)

dove rij è il vettore spostamento dalla posizione di qi a quella di qj.

______________________

Esercizio Consideriamo tre cariche uguali positive q = 2 × 10-6C poste ai lati di un triangolo equilatero di lato l = 0.1m. Quale forza agisce su ciascuna di esse? Con riferimento alla fig. 3.14, consideriamo la forza agente sulla carica 3; quella sulle altre due cariche è ricavabile per analogia.


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Figura 3.14: Forze coulombiane in una configurazione di cariche uguali poste ai vertici di un triangolo equilatero.

Le forze F13 e F23 agenti su di essa hanno lo steso modulo

F = |F13| = |F23| = keq2 l2 . (3.47)

I versori r^13 e r^23 hanno componenti orizzontali opposte e componenti verticali uguali:

r^13 = cos π 3i+sin π 3j = 1 2i+3 2 j,r^23 = cos 2π 3 i+sin 2π 3 j = -1 2i+3 2 j. (3.48)

La forza F3 risultante sulla carica 3 è dunque diretta verticalmente:

F3 = F13 + F23 = F r^13 + r^23 = 3Fj = 3keq2 l2 j = 3 × 8.99 × 109Nm2C-2 ×4 × 10-12C2 × 10-2m2 j = 6.23Nj. (3.49)

Le forze agenti sulla cariche 1 e 2 rispettivamente sono uguali in modulo, e dirette lungo i versori che si ottengono ruotando j di, rispettivamente, 2π3 e 4π3.

3.4.2 Il campo elettrico

Data una distribuzione di cariche qi poste nei punti Pi, (dette cariche “sorgenti”), una qualsiasi carica “di prova” q, che supponiamo piccola per far sì che la sua presenza non possa alterare la distribuzione delle cariche sorgenti, posta in un punto P, subisce una forza coulombiana Fq(P), diversa da punto a punto, dovuta alla sua interazione con le cariche sorgenti e proporzionale alla carica q stessa, vedi le eq. (3.42,3.46). Similmente avverrebbe per un’altra carica di prova q posta nello stesso punto, che subirebbe una forza proporzionale a q ma per il resto uguale a quella subita dalla carica q:

Fq(P) = qFq(P) q . (3.50)

Possiamo quindi interpretare la situazione come segue. Le cariche sorgenti generano un campo elettrico E(P) corrispondente alla forza per unità di carica subita da una piccola carica di prova8 posta nel punto P:

E(P) = lim q0Fq(P) q . (3.51)

In presenza del campo elettrico generato dalle sorgenti, una qualsiasi ulteriore carica q, posta nel punto P, subisce una forza

Fq = qE(P). (3.52)

Notiamo che la forza ha la direzione del campo elettrico, ma verso uguale od opposto a seconda del segno della carica q.

Nel caso in cui le cariche sorgenti siano puntiformi, dall’eq. (3.46) e dalla definizione (3.51) segue che

E(P) = keΣi qi riP 2r^iP , (3.53)

dove riP = PiP¯ è il vettore spostamento dalla posizione Pi della i-ma carica al punto P, riP il suo modulo e r^iP il versore corrispondente.

Campi vettoriali Il campo elettrico E(P) è un campo vettoriale, ovverossia esso corrisponde all’assegnazione di un vettore in ogni punto P dello spazio, vedi fig. 3.15:

PE(P). (3.54)

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Figura 3.15: Un campo vettoriale assegna un vettore ad ogni punto dello spazio.

Il vettore E può essere descritto tramite le sue componenti rispetto ad una base fissata, ad esempio scrivendo E = Exi + Eyj + Ezk. Al punto P dello spazio possiamo associare delle coordinate, ad esempio delle coordinate cartesiane: P (x,y,z), equivalenti al vettore spostamento x , o qualsiasi altra terma di coordinate. In questo modo il campo vettoriale è esplicitamente dato da una terna di funzioni reali, le componenti Ex,Ey,Ez, di tre variabili reali, le coordinate x,y,z. Nel seguito del corso incontreremo svariati esempi di campi vettoriali.

Il campo elettrico di un dipolo Come esempio (importante) di campo elettrico creato da un insieme di cariche puntiformi, consideriamo il caso di due cariche uguali ed opposte, q e - q, poste a distanza d = 2a l’una dall’altra, vedi fig. 3.16.


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Figura 3.16: La configurazione di cariche detta dipolo elettrico.

Tale configurazione è detta dipolo elettrico, e fornisce un utile modellizzazione di situazioni cui si ha una distribuzione di carica globalmente neutra, ma con il centro di carica positivo non coincidente con quello della cariche negative, come avviene ad esempio in alcune molecole. Il prodotto qd è detto “momento di dipolo”.

Con la scelta del S.R. fatta in fig. 3.16, la carica q1 = -q (negativa) è posta in x1 = ai, la carica q2 = q (positiva) in x2 = -x1 = -aj. Secondo l’eq. (3.53), il campo elettrico prodotto da queste sorgenti è dato, in un generico punto x, da

E(x) = ke q1 x -x1 |x -x1|3 + q2 x -x2 |x -x2|3 = keq - x -x1 |x -x1|3 + x + x1 |x + x1|3 , (3.55)

dove, rispetto all’eq. (3.53), abbiamo esplicitato il versore corrispondente allo spostamento x -x1 come (x -xi)|x -xi|.


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Figura 3.17: a) La configurazione di dipolo elettrico ha simmetria assiale intorno all’asse congiungente le due cariche. b) Nel piano (x,y) usiamo coordinate polari.

Il sistema possiede un’evidente simmetria assiale per rotazioni intorno all’asse x. Grazie a tale simmetria possiamo effettuare il calcolo del campo elettrico in punti x giacenti in un qualsiasi piano passante per l’asse x, ad esempio il piano (x,y). Lo stesso valore del campo si avrà in tutti i punti collegati a questo da una rotazione intorno all’asse x, di angolo arbitrario, vedi fig. 3.17 a). Con le notazioni di fig. 3.17 b) prendiamo dunque

x = r cos ϕi + r sin ϕj (3.56)

ottenendo così

x-x1 = (r cos ϕ-a)i+r sin ϕj,x+x1 = (r cos ϕ+a)i+r sin ϕj. (3.57)

Di conseguenza,

|x -x1|2 = r2 - 2ra cos ϕ + a2,|x + x 1|2 = r2 + 2ra cos ϕ + a2. (3.58)

Il campo elettrico nel punto x è quindi esprimibile in termini delle coordinate polari r,ϕ del punto, come segue:

E(r,ϕ) = keq{[ r cos ϕ + a (r2 + a2 + 2ar cos ϕ)3 2 - r cos ϕ - a (r2 + a2 - 2ar cos ϕ)3 2 ]i +[ r sin ϕ (r2 + a2 + 2ar cos ϕ)3 2 - r sin ϕ (r2 + a2 - 2ar cos ϕ)3 2 ]j}. (3.59)

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Figura 3.18: Il campo generato dal dipolo nei punti lungo l’asse y ha solo componente lungo l’asse x.

Nel punti che giacciono sull’asse verticale, x = (0,y), per cui cos ϕ = 0 e r = |y|, la componente lungo j del campo si annulla, e la sola componente è quella orizzontale, vedi fig. 3.18:

Ex(y) = 2a (y2 + a2)3 2 . (3.60)

Lungo l’asse orizzontale, x = (x, 0), si ha ϕ = 0 o ϕ = π, e r = |x|. Nuovamente, la componente lungo j si annulla e troviamo per la componente orizzontale (ricavare queste espressioni per esercizio: attenzione ai segni legati alla presenza di moduli!)

Ex(x) = -keq 4a|x| (x2-a2)2,|x| > a, 2keq x2+a2 (x2-a2)2, |x| < a. (3.61)

In fig. 3.19a) viene descritta la direzione del campo nei punti lungo l’asse x; in fig. 3.19b) vi è il grafico della componente Ex data in eq. (3.61).


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Figura 3.19: a) Direzione del campo di dipolo in punti lungo l’asse x. b) L’andamento della componente Ex(x) del campo nei punti lungo l’asse x.

Andamento a grandi distanze del campo del dipolo Estraiamo l’andamento dominante per r grande in eq. (3.59) scrivendo i denominatori che appaiono in tale espressione come segue:

1 (r2 + a2 + 2ar cos ϕ)3 2 = 1 r3 1 + 2a r cos ϕ + a2 r2 3 2 = 1 r3 1 - 3a r cos ϕ + O 1 r2 , (3.62)

dove abbiamo utilizzato il seguente sviluppo di Taylor intorno a z = 0:

1 + αz + βz2 -3 2 = 1 -3 2αz + O(z2); (3.63)

per noi z = 1r, ed espandere intorno a z = 0 corrisponde ad espandere intorno a r . Similmente abbiamo

1 (r2 + a2 - 2ar cos ϕ)3 2 = 1 r3 1 - 2a r cos ϕ + a2 r2 3 2 = 1 r3 1 + 3a r cos ϕ + O 1 r2 . (3.64)

Inserendo questi sviluppi in eq. (3.59) otteniamo dopo semplici passaggi (lasciati come esercizio)

E(r,ϕ) = 2keqa r3 (1 - 3 cos 2ϕ)i - 3 sin ϕ cos ϕj + O(1r4). (3.65)

Il campo elettrico di un dipolo decresce dunque a lunga distanza come 1r3, cioè molto più velocemente di quello dovuto ad una carica puntiforme, che va come 1r2. Infatti, in un punto molto distante, i campi prodotti dalle due cariche puntiformi uguali ed opposte che compongono il dipolo divengono quasi uguali ed opposti, ed il termine dominante in 1r2 si elide.

3.4.3 Flusso del campo elettrico

Linee di forza del campo elettrico E’ possibile dare una utile rappresentazione grafica del campo elettrico, che rende più intuitivi alcuni risultati matematici ad esso relativi.


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Figura 3.20: a) In ogni punto, il vettore appartenente al campo elettrico è tangente alla linea di forza. b) Il numero di linee di forza per unità di superficie che atraversano la zona A è superiore a quello nella zona B. Il campo è quindi più intenso nella zona A.

Essa è ottenuta tracciando delle linee orientate, dette linee di forza del campo, tali che:

Ad esempio, il campo elettrico prodotto da una carica puntiforme positiva è sempre diretto radialmente verso l’esterno, e le sue linee di flusso sono quindi delle semirette che si dipartono dalla posizione della carica, orientate verso l’esterno, vedi fig. 3.21a). Per una carica negativa il campo, e quindi le linee di forza, sono orientate verso la carica stessa, vedi fig. 3.21b).


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Figura 3.21: Linee di forza del campo coulombiano di a) una carica positiva, b) una carica negativa.

Il campo elettrico ha simmetria sferica, pertanto ha la stessa intensità in ogni punto di una superficie sferica di raggio r centrata nella carica, che ha area 4πr2. Se N è il numero di linee di campo che escono dalla carica, allora il numero di linee per unità di area che attraversano la superficie,W proporzionale all’intensità del campo, è N(4πr2). Questo è consistente con la forma, eq. (3.53), del campo coulombiano. Questa osservazione corrisponde, in nuce, alla legge di Gauss che discuteremo in seguito.


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Figura 3.22: Linee di forza del campo di dipolo (proiezione su un piano; il campo ha simmetria assale intorno all’asse x).

Come altro esempio, in fig. 3.22 sono rappresentate le linee di forza del campo di un dipolo.

1Nel processo di misura è necessaria anche un accurata valutazione degli errori ed una analisi statistica dei risultati, vedi la sez. 1.2.

2Un’affermazione scientifica ha la caratteristica di poter essere falsificabile tramite opportuni esperimenti.

3Anche se il detto “il tempo è denaro” non è del tutto irragionevole.

4La sua correttezza non può quindi venire controllata tramite essa.

5Anche senza espandere in serie, se consideriamo la derivata dell’esponenziale abbiamo

deτ dτ = eτ. (1.14)

La derivata rispetto al tempo corrisponde al limite di un rapporto incrementale in cui si ha un intervallo di tempo a denominatore, quindi a livello dimensionale eq. (1.14) implica

[eτ][t-1] = [eτ], (1.15)

il che è impossibile.

6A meno di termini di ordine superiore al primo in Δf, questa definizione coincide con Δf|f| dove f è il valore ”vero” della nostra misura, che possimo stimare come f = fm ± Δf.

7Per non appesantire eccessivamente la notazione, qui usiamo lo stesso simbolo per la grandezza ed il risultato della misura.

8Oviamente, la probabilità di ottenere un qualche x deve essere uno: siamo certi di ottenere un qualche risultato! Questo vuol dire che ogni corretta distribuzione di probablità deve essere normalizzata:

-dxp(x) = 1, (1.76)

il che è vero per la distribuzione gaussiana data in eq. (1.75), come segue dalla formula (1.80).

1Perlomeno, sino a quando i sistemi di riferimento sono in quiete o in moto reltivo uniforme.

2In qualche unità prefissata, se sono anche grandezze dimensionali, quali ad esempio spostamenti, forze,….

3Come già notato precedentemente, le coordinate spaziali hanno di per se dimensioni di lunghezza. Quando le pensiamo come numeri è perchè ne consideriamo il rapporto con una unità di misura fissata, che va dichiarata.

4A meno di non utilizzare in contemporanea altri sofisticati strumenti finanziari dipendenti dalle oscillazioni di valore delle azioni stesse.

5Come per tutti i moti che avvengono lungo una retta senza inversioni di senso di percorrenza.

1In effetti, nel S.I. è definita un’unità di forza, il Newton, 1N = 1Kgms-2. Quello che sarà conveniente fare è di usare come unità della scala l’allungamento prodotto da 1N.

2Sciegliamo dunque un sistema di coordinate in cui x = 0 quando l’estremo della molla si trova nella posizione di riposo.

3Oppure come x(t) = c+eiωt + c-e-iωt.

4Potremmo scegliere un qualsiasi altro istante per fissare questo tipo di condizioni.

5Se il corpo è una sfera di raggio R si trova che il coefficiente k = 6πRη, dove η è un parametro caratteristico del fluido, detto viscosità.

6Per evitare confusioni, rinominiamo le variabili di integrazione come t̃ e .

7La costante di Coulomb k e viene anche spesso espressa come ke = 1(4πϵ0) in termini di un’altra costante ϵ0 detta “costante dielettrica del vuoto”.

8Questa è la ragione del limite q 0 che si è inserito nell’eq. (3.51)

9La costante di proporzionalità è scelta in modo arbitrario e conveniente per la rappresentazione grafica del particolare campo cui si è interessati.